Giovanni Verga - Opera Omnia >>  Vita dei campi Riassunto    




 

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FANTASTICHERIA


Una volta, mentre il treno passava vicino ad Aci-Trezza, voi, affacciandovi allo sportello del vagone, esclamaste: « Vorrei starci un mese laggiù! »
Noi vi ritornammo e vi passammo non un mese, ma quarantott'ore; i terrazzani che spalancavano gli occhi vedendo i vostri grossi bauli avranno creduto che ci sareste rimasta un par d'anni. La mattina del terzo giorno, stanca di vedere eternamente del verde e dell'azzurro, e di contare i carri che passavano per via, eravate alla stazione, e gingillandovi impaziente colla catenella della vostra boccettina da odore, allungavate il collo per scorgere un convoglio che non spuntava mai. In quelle quarantott'ore facemmo tutto ciò che si può fare ad Aci-Trezza: passeggiammo nella polvere della strada e ci arrampicammo sugli scogli; col pretesto d'imparare a remare vi faceste sotto il guanto delle bollicine che rubavano i baci; passammo sul mare una notte romanticissima, gettando le reti tanto per far qualche cosa che a' barcaiuoli potesse parer meritevole di buscare dei reumatismi; e l'alba ci sorprese nell'alto del fariglione, un'alba modesta e pallida, che ho ancora dinanzi agli occhi, striata di larghi riflessi violetti, sul mare di un verde cupo; raccolta come una carezza su quel gruppetto di casuccie che dormivano quasi raggomitolate sulla riva, e in cima allo scoglio, sul cielo trasparente e profondo, si stampava netta la vostra figurina, colle linee sapienti che ci metteva la vostra sarta, e il profilo fine ed elegante che ci mettevate voi. - Avevate un vestitino grigio che sembrava fatto apposta per intonare coi colori dell'alba. - Un bel quadretto davvero! e si indovinava che lo sapevate anche voi dal modo col quale vi modellavate nel vostro scialletto, e sorridevate coi grandi occhioni sbarrati e stanchi a quello strano spettacolo, e a quell'altra stranezza di trovarvici anche voi presente. Che cosa avveniva nella vostra testolina mentre contemplavate il sole nascente? Gli domandavate forse in qual altro emisfero vi avrebbe ritrovata fra un mese? Diceste soltanto ingenuamente: « Non capisco come si possa viver qui tutta la vita ».
Eppure, vedete, la cosa è più facile che non sembri: basta non possedere centomila lire di entrata, prima di tutto; e in compenso patire un po' di tutti gli stenti fra quegli scogli giganteschi, incastonati nell'azzurro, che vi facevano batter le mani per ammirazione. Così poco basta perché quei poveri diavoli che ci aspettavano sonnecchiando nella barca, trovino fra quelle loro casipole sgangherate e pittoresche, che viste da lontano vi sembravano avessero il mal di mare anch'esse, tutto ciò che vi affannate a cercare a Parigi, a Nizza ed a Napoli.
È una cosa singolare; ma forse non è male che sia così - per voi, e per tutti gli altri come voi. Quel mucchio di casipole è abitato da pescatori; « gente di mare », dicon essi, come altri direbbe « gente di toga », i quali hanno la pelle più dura del pane che mangiano, quando ne mangiano, giacché il mare non è sempre gentile, come allora che baciava i vostri guanti... Nelle sue giornate nere, in cui brontola e sbuffa, bisogna contentarsi di stare a guardarlo dalla riva, colle mani in mano, o sdraiati bocconi, il che è meglio per chi non ha desinato; in quei giorni c'è folla sull'uscio dell'osteria, ma suonano pochi soldoni sulla latta del banco, e i monelli che pullulano nel paese, come se la miseria fosse un buon ingrasso, strillano e si graffiano quasi abbiano il diavolo in corpo.
Di tanto in tanto il tifo, il colèra, la malannata, la burrasca, vengono a dare una buona spazzata in quel brulicame, il quale si crederebbe che non dovesse desiderar di meglio che esser spazzato, e scomparire; eppure ripullula sempre nello stesso luogo; non so dirvi come, né perché.
Vi siete mai trovata, dopo una pioggia di autunno, a sbaragliare un esercito di formiche tracciando sbadatamente il nome del vostro ultimo ballerino sulla sabbia del viale? Qualcuna di quelle povere bestioline sarà rimasta attaccata alla ghiera del vostro ombrellino, torcendosi di spasimo; ma tutte le altre, dopo cinque minuti di pànico e di viavai, saranno tornate ad aggrapparsi disperatamente al loro monticello bruno. Voi non ci tornereste davvero, e nemmen io; ma per poter comprendere siffatta caparbietà, che è per certi aspetti eroica, bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto l'orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori. Volete metterci un occhio anche voi, a cotesta lente, voi che guardate la vita dall'altro lato del cannocchiale? Lo spettacolo vi parrà strano, e perciò forse vi divertirà.
Noi siamo stati amicissimi, ve ne rammentate? e mi avete chiesto di dedicarvi qualche pagina. Perché? à quoi bon? come dite voi? Che cosa potrà valere quel che scrivo per chi vi conosce? e per chi non vi conosce che cosa siete voi? Tant'è, mi son rammentato del vostro capriccio un giorno che ho rivisto quella povera donna cui solevate far l'elemosina col pretesto di comperar le sue arancie messe in fila sul panchettino dinanzi all'uscio. Ora il panchettino non c'è più; hanno tagliato il nespolo del cortile, e la casa ha una finestra nuova. La donna sola non aveva mutato, stava un po' più in là a stender la mano ai carrettieri, accoccolata sul mucchietto di sassi che barricano il vecchio posto della guardia nazionale; ed io girellando, col sigaro in bocca, ho pensato che anche lei, così povera com'è, vi avea vista passare, bianca e superba.
Non andate in collera se mi son rammentato di voi in tal modo a questo proposito. Oltre i lieti ricordi che mi avete lasciati, ne ho cento altri, vaghi, confusi, disparati, raccolti qua e là, non so più dove; forse alcuni son ricordi di sogni fatti ad occhi aperti; e nel guazzabuglio che facevano nella mia mente, mentre io passava per quella viuzza dove son passate tante cose liete e dolorose, la mantellina di quella donnicciola freddolosa, accoccolata, poneva un non so che di triste e mi faceva pensare a voi, sazia di tutto, perfino dell'adulazione che getta ai vostri piedi il giornale di moda, citandovi spesso in capo alla cronaca elegante - sazia così da inventare il capriccio di vedere il vostro nome sulle pagine di un libro.
Quando scriverò il libro, forse non ci penserete più; intanto i ricordi che vi mando, così lontani da voi in ogni senso, da voi inebbriata di feste e di fiori, vi faranno l'effetto di una brezza deliziosa, in mezzo alle veglie ardenti del vostro eterno carnevale. Il giorno in cui ritornerete laggiù, se pur ci ritornerete, e siederemo accanto un'altra volta, a spinger sassi col piede, e fantasie col pensiero, parleremo forse di quelle altre ebbrezze che ha la vita altrove. Potete anche immaginare che il mio pensiero siasi raccolto in quel cantuccio ignorato del mondo, perché il vostro piede vi si è posato, - o per distogliere i miei occhi dal luccichìo che vi segue dappertutto, sia di gemme o di febbri - oppure perché vi ho cercata inutilmente per tutti i luoghi che la moda fa lieti. Vedete quindi che siete sempre al primo posto, qui come al teatro.
Vi ricordate anche di quel vecchietto che stava al timone della nostra barca? Voi gli dovete questo tributo di riconoscenza perché egli vi ha impedito dieci volte di bagnarvi le vostre belle calze azzurre. Ora è morto laggiù all'ospedale della città, il povero diavolo, in una gran corsìa tutta bianca, fra dei lenzuoli bianchi, masticando del pane bianco, servito dalle bianche mani delle suore di carità, le quali non avevano altro difetto che di non saper capire i meschini guai che il poveretto biascicava nel suo dialetto semibarbaro.
Ma se avesse potuto desiderare qualche cosa egli avrebbe voluto morire in quel cantuccio nero vicino al focolare, dove tanti anni era stata la sua cuccia « sotto le sue tegole », tanto che quando lo portarono via piangeva guaiolando, come fanno i vecchi. Egli era vissuto sempre fra quei quattro sassi, e di faccia a quel mare bello e traditore col quale dové lottare ogni giorno per trarre da esso tanto da campare la vita e non lasciargli le ossa; eppure in quei momenti in cui si godeva cheto cheto la sua « occhiata di sole » accoccolato sulla pedagna della barca, coi ginocchi fra le braccia, non avrebbe voltato la testa per vedervi, ed avreste cercato invano in quegli occhi attoniti il riflesso più superbo della vostra bellezza; come quando tante fronti altere s'inchinano a farvi ala nei saloni splendenti, e vi specchiate negli occhi invidiosi delle vostre migliori amiche.
La vita è ricca, come vedete, nella sua inesauribile varietà; e voi potete godervi senza scrupoli quella parte di ricchezza che è toccata a voi, a modo vostro. Quella ragazza, per esempio, che faceva capolino dietro i vasi di basilico, quando il fruscìo della vostra veste metteva in rivoluzione la viuzza, se vedeva un altro viso notissimo alla finestra di faccia, sorrideva come se fosse stata vestita di seta anch'essa. Chi sa quali povere gioie sognava su quel davanzale, dietro quel basilico odoroso, cogli occhi intenti in quell'altra casa coronata di tralci di vite? E il riso dei suoi occhi non sarebbe andato a finire in lagrime amare, là, nella città grande, lontana dai sassi che l'avevano vista nascere e la conoscevano, se il suo nonno non fosse morto all'ospedale. e suo padre non si fosse annegato, e tutta la sua famiglia non fosse stata dispersa da un colpo di vento che vi avea soffiato sopra - un colpo di vento funesto, che avea trasportato uno dei suoi fratelli fin nelle carceri di Pantelleria: « nei guai! » come dicono laggiù.
Miglior sorte toccò a quelli che morirono; a Lissa l'uno, il più grande, quello che vi sembrava un David di rame, ritto colla sua fiocina in pugno, e illuminato bruscamente dalla fiamma dell'ellera. Grande e grosso com'era, si faceva di brace anch'esso se gli fissavate in volto i vostri occhi arditi; nondimeno è morto da buon marinaio, sulla verga di trinchetto, fermo al sartiame, levando in alto il berretto, e salutando un'ultima volta la bandiera col suo maschio e selvaggio grido d'isolano. L'altro, quell'uomo che sull'isolotto non osava toccarvi il piede per liberarlo dal lacciuolo teso ai conigli nel quale v'eravate impigliata da stordita che siete, si perdé in una fosca notte d'inverno, solo, fra i cavalloni scatenati, quando fra la barca e il lido, dove stavano ad aspettarlo i suoi, andando di qua e di là come pazzi, c'erano sessanta miglia di tenebre e di tempesta. Voi non avreste potuto immaginare di qual disperato e tetro coraggio fosse capace per lottare contro tal morte quell'uomo che lasciavasi intimidire dal capolavoro del vostro calzolaio.
Meglio per loro che son morti, e non « mangiano il pane del re », come quel poveretto che è rimasto a Pantelleria, e quell'altro pane che mangia la sorella, e non vanno attorno come la donna delle arancie, a viver della grazia di Dio; una grazia assai magra ad Aci-Trezza. Quelli almeno non hanno più bisogno di nulla! Lo disse anche il ragazzo dell'ostessa, l'ultima volta che andò all'ospedale per chieder del vecchio e portargli di nascosto dì quelle chiocciole stufate che son così buone a succiare per chi non ha più denti, e trovò il letto vuoto, colle coperte belle e distese, e sgattaiolando nella corte andò a piantarsi dinanzi a una porta tutta brandelli di cartaccie, sbirciando dal buco della chiave una gran sala vuota, sonora e fredda anche di estate, e l'estremità di una lunga tavola di marmo, su cui era buttato un lenzuolo, greve e rigido. E dicendo che quelli là almeno non avevano più bisogno di nulla, si mise a succiare ad una ad una le chiocciole che non servivano più, per passare il tempo. Voi, stringendovi al petto il manicotto di volpe azzurra, vi rammenterete con piacere che gli avete dato cento lire al povero vecchio.
Ora rimangono quei monellucci che vi scortavano come sciacalli e assediavano le arancie; rimangono a ronzare attorno alla mendica, a brancicarle le vesti come se ci avesse sotto del pane, a raccattar torsi di cavolo, buccie d'arancie e mozziconi di sigari, tutte quelle cose che si lasciano cadere per via ma che pure devono avere ancora qualche valore, perché c'è della povera gente che ci campa su; ci campa anzi così bene che quei pezzentelli paffuti e affamati cresceranno in mezzo al fango e alla polvere della strada, e si faranno grandi e grossi come il loro babbo e come il loro nonno, e popoleranno Aci-Trezza di altri pezzentelli, i quali tireranno allegramente la vita coi denti più a lungo che potranno, come il vecchio nonno, senza desiderare altro; e se vorranno fare qualche cosa diversamente da lui, sarà di chiudere gli occhi là dove li hanno aperti, in mano del medico del paese che viene tutti i giorni sull'asinello, come Gesù, ad aiutare la buona gente che se ne va.
- Insomma l'ideale dell'ostrica! direte voi. - Proprio l'ideale dell'ostrica, e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo che quello di non esser nati ostriche anche noi. Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere mentre seminava principi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano, mi sembrano - forse pel quarto d'ora - cose serissime e rispettabilissime anch'esse. Parmi che le irrequietudini del pensiero vagabondo s'addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione. - Parmi che potrei vedervi passare, al gran trotto dei vostri cavalli, col tintinnìo allegro dei loro finimenti e salutarvi tranquillamente.
Forse perché ho troppo cercato di scorgere entro al turbine che vi circonda e vi segue, mi è parso ora di leggere una fatale necessità nelle tenaci affezioni dei deboli, nell'istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alle tempeste della vita, e ho cercato di decifrare il dramma modesto e ignoto che deve aver sgominati gli attori plebei che conoscemmo insieme. Un dramma che qualche volta forse vi racconterò e di cui parmi tutto il nodo debba consistere in ciò: - che allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dal gruppo per vaghezza dell'ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo da pesce vorace com'è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui. - E sotto questo aspetto vedete che il dramma non manca d'interesse. Per le ostriche l'argomento più interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio.



JELI IL PASTORE


Jeli, il guardiano di cavalli, aveva tredici anni quando conobbe don Alfonso, il signorino; ma era così piccolo che non arrivava alla pancia della bianca, la vecchia giumenta che portava il campanaccio della mandra. Lo si vedeva sempre di qua e di là, pei monti e nella pianura, dove pascolavano le sue bestie, ritto ed immobile su qualche greppo, o accoccolato su di un gran sasso. Il suo amico don Alfonso, mentre era in villeggiatura, andava a trovarlo tutti i giorni che Dio mandava a Tebidi, e divideva con lui il suo pezzetto di cioccolata e il pane d'orzo del pastorello, e le frutta rubate al vicino. Dapprincipio, Jeli dava dell'eccellenza al signorino, come si usa in Sicilia, ma dopo che si furono accapigliati per bene, la loro amicizia fu stabilita solidamente. Jeli insegnava al suo amico come si fa ad arrampicarsi sino ai nidi delle gazze, sulle cime dei noci più alti del campanile di Licodia, a cogliere un passero a volo con una sassata, e montare con un salto sul dorso nudo delle sue bestie mezze selvaggie, acciuffando per la criniera la prima che passava a tiro, senza lasciarsi sbigottire dai nitriti di collera dei puledri indomiti, e dai loro salti disperati. Ah! le belle scappate pei campi mietuti, colle criniere al vento! i bei giorni d'aprile, quando il vento accavallava ad onde l'erba verde, e le cavalle nitrivano nei pascoli; i bei meriggi d'estate, in cui la campagna, bianchiccia, taceva, sotto il cielo fosco, e i grilli scoppiettavano fra le zolle, come se le stoppie si incendiassero! il bel cielo d'inverno attraverso i rami nudi del mandorlo, che rabbrividivano al rovajo, e il viottolo che suonava gelato sotto lo zoccolo dei cavalli, e le allodole che trillavano in alto, al caldo, nell'azzurro! le belle sere di estate che salivano adagio adagio come la nebbia; il buon odore del fieno in cui si affondavano i gomiti, e il ronzìo malinconico degli insetti della sera, e quelle due note dello zufolo di Jeli, sempre le stesse - iuh! iuh! iuh! che facevano pensare alle cose lontane, alla festa di San Giovanni, alla notte di Natale, all'alba della scampagnata, a tutti quei grandi avvenimenti trascorsi, che sembrano mesti, così lontani, e facevano guardare in alto, cogli occhi umidi, quasi tutte le stelle che andavano accendendosi in cielo vi piovessero in cuore, e l'allagassero!
Jeli, lui, non pativa di quella malinconia; se ne stava accoccolato sul ciglione, colle gote enfiate, intentissimo a suonare iuh! iuh! iuh! Poi radunava il branco a furia di gridi e di sassate, e lo spingeva nella stalla, di là del poggio alla Croce.
Ansando, saliva la costa, di là dal vallone, e gridava qualche volta al suo amico Alfonso: - Chiamati il cane! ohé, chiamati il cane; oppure: - Tirami una buona sassata allo zaino, che mi fa il signorino, e se ne viene adagio adagio, gingillandosi colle macchie del vallone; oppure: - Domattina portami un ago grosso, di quelli della gnà Lia.
Ei sapeva fare ogni sorta di lavori coll'ago; e ci aveva un batuffoletto di cenci nella sacca di tela, per rattoppare al bisogno le brache e le maniche del giubbone; sapeva anche tessere dei trecciuoli di crini di cavallo, e si lavava anche da sé colla creta del vallone il fazzoletto che si metteva al collo, quando aveva freddo. Insomma, purché ci avesse la sua sacca ad armacollo, non aveva bisogno di nessuno al mondo, fosse stato nei boschi di Resecone, o perduto in fondo alla piana di Caltagirone. La gnà Lia soleva dire: - Vedete Jeli il pastore? è stato sempre solo pei campi come se l'avessero figliato le sue cavalle, ed è perciò che sa farsi la croce con le due mani!
Del rimanente è vero che Jeli non aveva bisogno di nessuno, ma tutti quelli della fattoria avrebbero fatto volentieri qualche cosa per lui, poiché era un ragazzo servizievole, e ci era sempre il caso di buscarci qualche cosa da lui. La gnà Lia gli cuoceva il pane per amor del prossimo, ed ei la ricambiava con bei panierini di vimini per le ova, arcolai di canna, ed altre coserelle. - Facciamo come fanno le sue bestie, diceva la gnà Lia, che si grattano il collo a vicenda.
A Tebidi tutti lo conoscevano da piccolo, che non si vedeva fra le code dei cavalli, quando pascolavano nel piano del lettighiere, ed era cresciuto, si può dire, sotto i loro occhi, sebbene nessuno lo vedesse mai, e ramingasse sempre di qua e di là col suo armento!
« Era piovuto dal cielo, e la terra l'aveva raccolto » come dice il proverbio; era proprio di quelli che non hanno né casa né parenti. La sua mamma stava a servire a Vizzini, e non lo vedeva altro che una volta all'anno quando egli andava coi puledri alla fiera di San Giovanni; e il giorno in cui era morta, erano venuti a chiamarlo, un sabato sera, ed il lunedì Jeli tornò alla mandra, sicché il contadino che l'aveva surrogato nella guardia dei cavalli, non perse nemmeno la giornata; ma il povero ragazzo era ritornato così sconvolto che alle volte lasciava scappare i puledri nel seminato. - Ohé! Jeli! gli gridava allora Massaro Agrippino dall'aja; o che vuoi assaggiare le nerbate delle feste, figlio di cagna? - Jeli si metteva a correre dietro i puledri sbrancati, e li spingeva mogio mogio verso la collina; però davanti agli occhi ci aveva sempre la sua mamma, col capo avvolto nel fazzoletto bianco, che non gli parlava più.
Suo padre faceva il vaccaro a Ragoleti, di là di Licodia, « dove la malaria si poteva mietere » dicevano i contadini dei dintorni; ma nei terreni di malaria i pascoli sono grassi, e le vacche non prendono le febbri. Jeli quindi se ne stava nei campi tutto l'anno, o a Don Ferrante, o nelle chiuse della Commenda, o nella valle del Jacitano, e i cacciatori, o i viandanti che prendevano le scorciatoie lo vedevano sempre qua e là, come un cane senza padrone. Ei non ci pativa, perché era avvezzo a stare coi cavalli che gli camminavano dinanzi, passo passo, brucando il trifoglio, e cogli uccelli che girovagavano a stormi, attorno a lui, tutto il tempo che il sole faceva il suo viaggio lento lento, sino a che le ombre si allungavano e poi si dileguavano; egli avea il tempo di veder le nuvole accavallarsi a poco a poco e figurar monti e vallate; conosceva come spira il vento quando porta il temporale, e di che colore sia il nuvolo quando sta per nevicare. Ogni cosa aveva il suo aspetto e il suo significato, e c'era sempre che vedere e che ascoltare in tutte le ore del giorno. Così, verso il tramonto quando il pastore si metteva a suonare collo zufolo di sambuco, la cavalla mora si accostava masticando il trifoglio svogliatamente, e stava anch'essa a guardarlo, con grandi occhi pensierosi.
Dove soffriva soltanto un po' di malinconia era nelle lande deserte di Passanitello, in cui non sorge macchia né arbusto, e ne' mesi caldi non ci vola un uccello. I cavalli si radunavano in cerchio colla testa ciondoloni, per farsi ombra scambievolmente, e nei lunghi giorni della trebbiatura quella gran luce silenziosa pioveva sempre uguale ed afosa per sedici ore.
Però dove il mangime era abbondante, e i cavalli indugiavano volentieri, il ragazzo si occupava con qualche altra cosa: faceva delle gabbie di canna per i grilli, delle pipe intagliate, e dei panierini di giunco; con quattro ramoscelli, sapeva rizzare un po' di tettoia, quando la tramontana spingeva per la valle le lunghe file dei corvi, o quando le cicale battevano le ali nel sole che abbruciava le stoppie; arrostiva le ghiande del querceto nella brace de' sarmenti di sommacco, che pareva di mangiare delle bruciate, o vi abbrustoliva le larghe fette di pane allorché cominciava ad avere la barba dalla muffa, perché quando si trovava a Passanitello nell'inverno, le strade erano così cattive che alle volte passavano quindici giorni senza che si vedesse passare anima viva.
Don Alfonso che era tenuto nel cotone dai suoi genitori, invidiava al suo amico Jeli la tasca di tela dove ci aveva tutta la sua roba, il pane, le cipolle, il fiaschetto del vino, il fazzoletto pel freddo, il batuffoletto dei cenci col refe e gli aghi grossi, la scatoletta di latta coll'esca e la pietra focaja; gli invidiava pure la superba cavalla vajata, quella bestia dal ciuffetto di peli irti sulla fronte, che aveva gli occhi cattivi, e gonfiava le froge al pari di un mastino ringhioso quando qualcuno voleva montarla. Da Jeli invece si lasciava montare e grattare le orecchie, di cui era gelosa, e l'andava fiutando per ascoltare quello che ei voleva dirle. - Lascia stare la vajata, gli raccomandava Jeli, non è cattiva, ma non ti conosce.
Dopo che Scordu il Bucchierese si menò via la giumenta calabrese che aveva comprato a San Giovanni, col patto che gliela tenessero nell'armento sino alla vendemmia, il puledro zaino rimasto orfano non voleva darsi pace, e scorazzava su pei greppi del monte con lunghi nitriti lamentevoli, e colle froge al vento. Jeli gli correva dietro, chiamandolo con forti grida, e il puledro si fermava ad ascoltare, col collo teso e le orecchie irrequiete, sferzandosi i fianchi colla coda. - È perché gli hanno portato via la madre, e non sa più cosa si faccia - osservava il pastore. - Adesso bisogna tenerlo d'occhio perché sarebbe capace di lasciarsi andar giù nel precipizio. Anch'io, quando mi è morta la mia mamma, non ci vedevo più dagli occhi.
Poi, dopo che il puledro ricominciò a fiutare il trifoglio, e a darvi qualche boccata di malavoglia - Vedi! a poco a poco comincia a dimenticarsene.
- Ma anch'esso sarà venduto. I cavalli sono fatti per esser venduti; come gli agnelli nascono per andare al macello, e le nuvole portano la pioggia. Solo gli uccelli non hanno a far altro che cantare e volare tutto il giorno.
Le idee non gli venivano nette e filate l'una dietro l'altra, ché di rado aveva avuto con chi parlare e perciò non aveva fretta di scovarle e distrigarle in fondo alla testa, dove era abituato a lasciare che sbucciassero e spuntassero fuori a poco a poco, come fanno le gemme dei ramoscelli sotto il sole. - Anche gli uccelli, soggiunse, devono buscarsi il cibo, e quando la neve copre la terra se ne muoiono.
Poi ci pensò su un pezzetto. - Tu sei come gli uccelli; ma quando arriva l'inverno te ne puoi stare al fuoco senza far nulla.
Don Alfonso però rispondeva che anche lui andava a scuola, a imparare. Jeli allora sgranava gli occhi, e stava tutto orecchi se il signorino si metteva a leggere, e guardava il libro e lui in aria sospettosa, stando ad ascoltare con quel lieve ammiccar di palpebre che indica l'intensità dell'attenzione nelle bestie che più si accostano all'uomo. Gli piacevano i versi che gli accarezzavano l'udito con l'armonia di una canzone incomprensibile, e alle volte aggrottava le ciglia, appuntava il mento, e sembrava che un gran lavorìo si stesse facendo nel suo interno; allora accennava di sì e di sì col capo, con un sorriso furbo, e si grattava la testa. Quando poi il signorino mettevasi a scrivere per far vedere quante cose sapeva fare, Jeli sarebbe rimasto delle giornate intiere a guardarlo, e tutto a un tratto lasciava scappare un'occhiata sospettosa. Non poteva persuadersi che si potesse poi ripetere sulla carta quelle parole che egli aveva dette, o che aveva dette don Alfonso, ed anche quelle cose che non gli erano uscite di bocca, e finiva col fare quel sorriso furbo.
Ogni idea nuova che gli picchiasse nella testa per entrare, lo metteva in sospetto, e pareva la fiutasse colla diffidenza selvaggia della sua vajata. Però non mostrava meraviglia di nulla al mondo; gli avessero detto che in città i cavalli andavano in carrozza, egli sarebbe rimasto impassibile con quella maschera d'indifferenza orientale che è la dignità del contadino siciliano. Pareva che istintivamente si trincerasse nella sua ignoranza, come fosse la forza della povertà. Tutte le volte che rimaneva a corto di argomenti ripeteva: - Io non ne so nulla. Io sono povero - con quel sorriso ostinato che voleva essere furbo.
Aveva chiesto al suo amico Alfonso di scrivergli il nome di Mara su di un pezzetto di carta che aveva trovato chi sa dove, perché egli raccattava tutto quello che vedeva per terra, e se l'era messo nel batuffoletto dei cenci. Un giorno, dopo di esser stato un po' zitto, a guardare di qua e dì là soprappensiero, gli disse serio serio:
- Io ci ho l'innamorata.
Alfonso, malgrado che sapesse leggere, sgranava gli occhi. - Sì, ripeté Jeli, Mara, la figlia di Massaro Agrippino che era qui; ed ora sta a Marineo, in quel gran casamento della pianura che si vede dal piano del lettighiere, lassù.
- O ti mariti dunque?
- Sì, quando sarò grande, e avrò sei onze all'anno di salario. Mara non ne sa nulla ancora.
- Perché non gliel'hai detto?
Jeli tentennò il capo, e si mise a riflettere. Poi svolse il batuffoletto e spiegò la carta che s'era fatta scrivere.
- È proprio vero che dice Mara; l'ha letto pure don Gesualdo, il campiere, e fra Cola, quando venne giù per la cerca delle fave.
- Uno che sappia scrivere, osservò poi, è come uno che serbasse le parole nella scatola dell'acciarino, e potesse portarsele in tasca, ed anche mandarle di qua e di là.
- Ora che ne farai di quel pezzetto di carta tu che non sai leggere? gli domandò Alfonso.
Jeli si strinse nelle spalle, ma continuò ad avvolgere accuratamente il suo fogliolino scritto nel batuffoletto dei cenci.
La Mara l'aveva conosciuta da bambina, che avevano cominciato dal picchiarsi ben bene, una volta che s'erano incontrati lungo il vallone, a cogliere le more nelle siepi di rovo. La ragazzina, la quale sapeva di essere « nel fatto suo », aveva agguantato pel collo Jeli, come un ladro. Per un po' s'erano scambiati dei pugni nella schiena, uno tu ed uno io, come fa il bottaio sui cerchi delle botti, ma quando furono stanchi andarono calmandosi a poco a poco, tenendosi sempre acciuffati.
- Tu chi sei? gli domandò Mara.
E come Jeli, più salvatico, non diceva chi fosse. - Io sono Mara, la figlia di Massaro Agrippino, che è il campaio di tutti questi campi qui.
Jeli allora lasciò la presa dell'intutto, e la ragazzina si mise a raccattare le more che le erano cadute nella lotta, sbirciando di tanto in tanto il suo avversario con curiosità.
- Di là del ponticello, nella siepe dell'orto, ci son tante more grosse; aggiunse la piccina, e se le mangiano le galline.
Jeli intanto si allontanava quatto quatto, e Mara, dopo che stette ad accompagnarlo cogli occhi finché poté vederlo nel querceto, volse le spalle anche lei, e se la diede a gambe verso casa.
Ma da quel giorno in poi cominciarono ad addomesticarsi. Mara andava a filare la stoppa sul parapetto del ponticello, e Jeli adagio adagio spingeva l'armento verso le falde del poggio del Bandito. Da prima se ne stava in disparte ronzandole attorno, guardandola da lontano in aria sospettosa, e a poco a poco andava accostandosi coll'andatura guardinga del cane avvezzo alle sassate. Quando finalmente si trovavano accanto, ci stavano delle lunghe ore senza aprir bocca. Jeli osservando attentamente l'intricato lavorìo delle calze che la mamma aveva messo al collo alla Mara, oppure costei gli vedeva intagliare i bei zig zag sui bastoni di mandorlo. Poi se ne andavano l'uno di qua e l'altro di là, senza dirsi una parola, e la bambina, com'era in vista della casa, si metteva a correre, facendo levar alta la sottanella sulle gambette rosse.
Al tempo dei fichidindia poi si fissarono nel folto delle macchie, sbucciando dei fichi tutto il santo giorno. Vagabondavano insieme sotto i noci secolari, e Jeli ne bacchiava tante delle noci, che piovevano fitte come la gragnuola; e la ragazzina si affaticava a raccattarle con grida di giubilo più che ne poteva; e poi scappava via, lesta lesta, tenendo tese le due cocche del grembiale, dondolandosi come una vecchietta.
Durante l'inverno Mara non osò mettere fuori il naso, in quel gran freddo. Alle volte, verso sera, si vedeva il fumo dei fuocherelli di sommacchi che Jeli andava facendo sul pianto del lettighiere, o sul poggio di Macca, per non rimanere intirizzito al pari di quelle cinciallegre che la mattina trovava dietro un sasso, o al riparo di una zolla. Anche i cavalli ci trovavano piacere a ciondolare un po' la coda attorno al fuoco, e si stringevano gli uni agli altri per star più caldi.
Col marzo tornarono le allodole nel piano, i passeri sul tetto, le foglie e i nidi nelle siepi, Mara riprese ad andare a spasso in compagnia di Jeli nell'erba soffice, fra le macchie in fiore, sotto gli alberi ancora nudi che cominciavano a punteggiarsi di verde. Jeli si ficcava negli spineti come un segugio per andare a scovare delle nidiate di merli che guardavano sbalorditi coi loro occhietti di pepe; i due fanciulli portavano spesso nel petto della camicia dei piccoli conigli allora stanati, quasi nudi, ma dalle lunghe orecchie diggià inquiete. Scorazzavano pei campi al seguito del branco dei cavalli, entrando nelle stoppie dietro i mietitori, passo passo coll'armento, fermandosi ogni volta che una giumenta si fermava a strappare una boccata d'erba. La sera, giunti al ponticello, se ne andavano l'uno di qua e l'altra di là, senza dirsi addio.
Così passarono tutta l'estate. Intanto il sole cominciava a tramontare dietro il poggio alla Croce, e i pettirossi gli andavano dietro verso la montagna, come imbruniva, seguendolo fra le macchie dei fichidindia. I grilli e le cicale non si udivano più, e in quell'ora per l'aria si spandeva una grande malinconia.
In quel tempo arrivò al casolare di Jeli suo padre, il vaccaro, che aveva preso la malaria a Ragoleti, e non poteva nemmen reggersi sull'asino che l'aveva portato. Jeli accese il fuoco, lesto lesto, e corse « alle case » per cercargli qualche uovo di gallina. - Piuttosto stendi un po' di strame vicino al fuoco, gli disse suo padre; ché mi sento tornare la febbre.
Il ribrezzo della febbre era così forte che compare Menu, seppellito sotto il suo gran tabarro, la bisaccia dell'asino, e la sacca di Jeli, tremava come fanno le foglie in novembre, davanti alla gran vampa di sarmenti che gli faceva il viso bianco bianco come un morto. I contadini della fattoria venivano a domandargli: - Come vi sentite, compare Menu? Il poveretto non rispondeva altro che con un guaito come fa un cagnuolo di latte. - È malaria di quella che ammazza meglio di una schioppettata, dicevano gli amici, scaldandosi le mani al fuoco.
Fu chiamato anche il medico, ma erano denari buttati via, perché la malattia era di quelle chiare e conosciute che anche un ragazzo saprebbe curarla, e se la febbre non era di quelle che ammazzano ad ogni modo, col solfato si sarebbe guarita subito. Compare Menu ci spese gli occhi della testa in tanto solfato, ma era come buttarlo nel pozzo. - Prendete un buon decotto di ecalibbiso che non costa nulla, suggeriva Massaro Agrippino, e se non serve a nulla come il solfato, almeno non vi rovinate a spendere. - Si prendeva anche il decotto di eucaliptus, eppure la febbre tornava sempre, e anche più forte. Jeli assisteva il genitore come meglio sapeva. Ogni mattina, prima d'andarsene coi puledri, gli lasciava il decotto preparato nella ciotola, il fascio dei sarmenti sotto la mano, le uova nella cenere calda, e tornava presto alla sera colle altre legne per la notte e il fiaschetto del vino e qualche pezzetto di carne di montone che era corso a comperare sino a Licodia. Il povero ragazzo faceva ogni cosa con garbo, come una brava massaia, e suo padre, accompagnandolo cogli occhi stanchi nelle sue faccenduole qua e là pel casolare, di tanto in tanto sorrideva pensando che il ragazzo avrebbe saputo aiutarsi, quando fosse rimasto solo.
I giorni in cui la febbre cessava per qualche ora, compare Menu si alzava tutto stravolto e col capo stretto nel fazzoletto, e si metteva sull'uscio ad aspettare Jeli, mentre il sole era ancora caldo. Come Jeli lasciava cadere accanto all'uscio il fascio della legna e posava sulla tavola il fiasco e le uova, ei gli diceva: - Metti a bollire l'ecalìbbiso per stanotte, - oppure - guarda che l'oro di tua madre l'ha in consegna la zia Agata, quando non ci sarò più. - Jeli diceva di sì col capo.
- È inutile; ripeteva Massaro Agrippino ogni volta che tornava a vedere compare Menu colla febbre. Il sangue oramai è tutto una peste. - Compare Menu ascoltava senza batter palpebra, col viso più bianco della sua berretta,
Diggià non si alzava più. Jeli si metteva a piangere quando non gli bastavano le forze per aiutarlo a voltarsi da un lato all'altro; poco per volta compare Menu finì per non parlare nemmen più. Le ultime parole che disse al suo ragazzo furono:
- Quando sarò morto andrai dal padrone delle vacche a Ragoleti, e ti farai dare le tre onze e i dodici tumoli di frumento che avanzo da maggio a questa parte.
- No, rispose Jeli, sono soltanto 2 onze e quindici, perché avete lasciato le vacche che è più di un mese, e bisogna fare il conto giusto col padrone.
- È vero! affermò compare Menu socchiudendo gli occhi.
- Ora son proprio solo al mondo come un puledro smarrito, che se lo possono mangiare i lupi! pensò Jeli quando gli ebbero portato il babbo al cimitero di Licodia.
Mara era venuta a vedere anche lei la casa del morto colla curiosità acuta che destano le cose spaventose. - Vedi come son rimasto? le disse Jeli, la ragazzetta si tirò indietro sbigottita per paura che la facesse entrare nella casa dove era stato il morto.
Jeli andò a riscuotere il denaro del babbo, e poscia partì coll'armento per Passanitello, dove l'erba era già alta sul terreno lasciato pel maggese e il mangime era abbondante; perciò i puledri vi restarono a pascolarvi per molto tempo. Frattanto Jeli s'era fatto grande, ed anche Mara doveva esser cresciuta, pensava egli sovente mentre suonava il suo zufolo; e quando tornò a Tebidi dopo tanto tempo, spingendosi innanzi adagio adagio le giumente per i viottoli sdrucciolevoli della fontana dello zio Cosimo, andava cercando cogli occhi il ponticello del vallone, e il casolare nella valle del Iacitano, e il tetto delle « case grandi » dove svolazzavano sempre i colombi. Ma in quel tempo il padrone aveva licenziato Massaro Agrippino e tutta la famiglia di Mara stava sloggiando. Jeli trovò la ragazza la quale s'era fatta grandicella e belloccia alla porta del cortile, che teneva d'occhio la sua roba mentre la caricavano sulla carretta. Ora la stanza vuota sembrava più scura e affumicata del solito. La tavola, e il letto, e il cassettone, e le immagini della Vergine e di San Giovanni, e fino i chiodi per appendervi le zucche delle sementi ci avevano lasciato il segno sulle pareti dove erano state per tanti anni. - Andiamo via, gli disse Mara come lo vide osservare. Ce ne andiamo laggiù a Marineo dove c'è quel gran casamento nella pianura.
Jeli si diede ad aiutare Massaro Agrippino e la gnà Lia nel caricare la carretta, e allorché non ci fu altro da portare via dalla stanza andò a sedere con Mara sul parapetto dell'abbeveratojo. - Anche le case, le disse quand'ebbe visto accatastare l'ultima cesta sulla carretta, anche le case, come se ne toglie via qualche oggetto non sembrano più quelle.
- A Marineo, rispose Mara, ci avremo una camera più bella, ha detto la mamma, e grande come il magazzino dei formaggi.
- Ora che tu sarai via, non voglio venirci più qui; ché mi parrà di esser tornato l'inverno a veder quell'uscio chiuso.
- A Marineo invece troveremo dell'altra gente, Pudda la rossa, e la figlia del campiere; si starà allegri, per la messe verranno più di ottanta mietitori, colla cornamusa, e si ballerà sull'aja.
Massaro Agrippino e sua moglie si erano avviati colla carretta, Mara correva loro dietro tutta allegra, portando il paniere coi piccioni. Jeli volle accompagnarla sino al ponticello, e quando Mara stava per scomparire nella vallata la chiamò: - Mara! oh! Mara!
- Che vuoi? disse Mara.
Egli non lo sapeva che voleva. - O tu, cosa farai qui tutto solo? gli domandò allora la ragazza.
- Io resto coi puledri.
Mara se ne andò saltellando, e lui rimase lì fermo, finché poté udire il rumore della carretta che rimbalzava sui sassi. Il sole toccava le roccie alte del poggio alla Croce, le chiome grigie degli ulivi sfumavano nel crepuscolo, e per la campagna vasta, lontan lontano non si udiva altro che il campanaccio della bianca nel silenzio che sì allargava.
Mara, come se ne fu andata a Marineo in mezzo alla gente nuova, e alle faccende della vendemmia, si scordò di lui; ma Jeli ci pensava sempre a lei, perché non aveva altro da fare, nelle lunghe giornate che passava a guardare la coda delle sue bestie. Adesso non aveva poi motivo alcuno per calar nella valle, di là del ponticello, e nessuno lo vedeva più alla fattoria. In tal modo ignorò per un pezzo che Mara si era fatta sposa, giacché dell'acqua intanto ne era passata e passata sotto il ponticello. Egli rivide soltanto la ragazza il dì della festa di San Giovanni, come andò alla fiera coi puledri da vendere: una festa che gli si mutò tutta in veleno, e gli fece cascare il pan di bocca per un accidente toccato ad uno dei puledri del padrone, Dio ne scampi.
Il giorno della fiera il fattore aspettava i puledri sin dall'alba, andando su e giù cogli stivali inverniciati dietro le groppe dei cavalli e dei muli, messi in fila di qua e di là dello stradone. La fiera era già sul finire, né Jeli spuntava ancora colle bestie, di là del gomito che faceva lo stradone. Sulle pendici riarse del Calvario e del Mulino a vento, rimaneva tuttora qualche branco di pecore, strette in cerchio col muso a terra e l'occhio spento, e qualche pariglia di buoi, dal pelo lungo, di quelli che si vendono per pagare il fitto delle terre, che aspettavano immobili, sotto il sole cocente. Laggiù, verso la valle, la campana di San Giovanni suonava la messa grande, accompagnata dal lungo crepitìo dei mortaletti. Allora il campo della fiera sembrava trasalire, e correva un gridìo che si prolungava fra le tende dei trecconi schierate nella salita dei Galli, scendeva per le vie del paese, e sembrava ritornare dalla valle dov'era la chiesa. Viva San Giovanni!
- Santo diavolone! strillava il fattore, quell'assassino di Jeli mi farà perdere la fiera!
Le pecore levavano il muso attonito, e si mettevano a belare tutte in una volta, e anche i buoi facevano qualche passo lentamente, guardando in giro, con grandi occhi intenti.
Il fattore era così in collera perché quel giorno dovevasi pagare il fitto delle chiuse grandi, « come San Giovanni fosse arrivato sotto l'olmo, » diceva il contratto, e a completare la somma si era fatto assegnamento sulla vendita dei puledri. Intanto di puledri, e cavalli, e muli ce n'erano quanti il Signore ne aveva fatti, tutti strigliati e lucenti, e ornati di fiocchi, e nappine, e sonagli, che scodinzolavano per scacciare la noia, e voltavano la testa verso ognuno che passava, e pareva che aspettassero un'anima caritatevole che volesse comprarli.
- Si sarà messo a dormire, quell'assassino! seguitava a gridare il fattore; e mi lascia i puledri sulla pancia!
Invece Jeli aveva camminato tutta la notte acciocché i puledri arrivassero freschi alla fiera, e prendessero un buon posto nell'arrivare, ed era giunto al piano del Corvo che ancora i tre re non erano tramontati, e luccicavano sul monte Arturo, colle braccia in croce. Per la strada passavano continuamente carri, e gente a cavallo che andavano alla festa; per questo il giovanetto teneva ben aperti gli occhi, acciò i puledri, spaventati dall'insolito via vai, non si sbandassero, ma andassero uniti lungo il ciglione della strada, dietro la bianca che camminava diritta e tranquilla, col campanaccio al collo. Di tanto in tanto, allorché la strada correva sulla sommità delle colline, si udiva sin là la campana di San Giovanni, che anche nel bujo e nel silenzio della campagna si sentiva la festa, e per tutto lo stradone, lontan lontano, sin dove c'era gente a piedi o a cavallo che andava a Vizzini si udiva gridare: - Viva San Giovanni! - e i razzi salivano diritti e lucenti dietro i monti della Canziria, come le stelle che piovono in agosto.
- È come la notte di Natale! andava dicendo Jeli al ragazzo che l'aiutava a condurre il branco, - che in ogni fattoria si fa festa e luminaria, e per tutta la campagna si vedono qua e là dei fuochi.
Il ragazzo sonnecchiava, spingendo adagio adagio una gamba dietro l'altra, e non rispondeva nulla; ma Jeli che si sentiva rimescolare tutto il sangue da quella campana, non poteva star zitto, come se ognuno di quei razzi che strisciavano sul bujo taciti e lucenti dietro il monte gli sbocciassero dall'anima.
- Mara sarà andata anche lei alla festa di San Giovanni, diceva, perché ci va tutti gli anni.
E senza curarsi che Alfio il ragazzo, non rispondeva nulla:
- Tu non sai? ora Mara è alta così, che è più grande di sua madre che l'ha fatta, e quando l'ho rivista non mi pareva vero che fosse proprio quella stessa con cui si andava a cogliere i fichidindia, e a bacchiare le noci.
E si mise a cantare ad alta voce tutte le canzoni che sapeva.
- O Alfio, che dormi? gli gridò quand'ebbe finito. Bada che la bianca ti vien sempre dietro, bada!
- No, non dormo! rispose Alfio con voce rauca.
- La vedi la puddara, che sta ad ammiccarci lassù, verso Granvilla, come sparassero dei razzi anche a Santa Domenica? Poco può passare a romper l'alba; pure alla fiera arriveremo in tempo per trovare un buon posto. Ehi! morellino bello! che ci avrai la cavezza nuova, colle nappine rosse, per la fiera! e anche tu, stellato!
Così andava parlando all'uno e all'altro dei puledri perché si rinfrancassero sentendo la sua voce nel buio. Ma gli doleva che lo stellato e il morellino andassero alla fiera per esser venduti.
- Quando saran venduti, se ne andranno col padrone nuovo, e non si vedranno più nella mandria, com'è stato di Mara, dopo che se ne fu andata a Marineo.
- Suo padre sta benone laggiù a Marineo; ché quando andai a trovarli mi misero dinanzi pane, vino, formaggio, e ogni ben di Dio, che egli è quasi il fattore, ed ha le chiavi di ogni cosa, e avrei potuto mangiarmi tutta la fattoria se avessi voluto. Mara non mi conosceva quasi più da tanto che non ci vedevamo! e si mise a gridare: - Oh! guarda! è Jeli, il guardiano dei cavalli, quello di Tebidi! Gli è come quando uno torna da lontano, che al vedere soltanto il cocuzzolo di un monte gli basta a riconoscere subito il paese dove è cresciuto. La gnà Lia non voleva che le dessi più del tu, alla Mara, ora che sua figlia si è fatta grande, perché la gente che non sa nulla, chiacchiera facilmente. Mara invece rideva, e sembrava che avesse infornato il pane allora allora, tanto era rossa; apparecchiava la tavola, e spiegava la tovaglia che non pareva più quella. - O che non ti rammenti più di Tebidi? le chiesi appena la gnà Lia fu sortita per spillare del vino fresco dalla botte. - Sì, sì, me ne rammento, mi disse ella, a Tebidi c'era la campana col campanile che pareva un manico di saliera, e si suonava dal ballatoio, e c'erano pure due gatti di sasso, che facevano le fusa sul cancello del giardino. - Io me le sentivo qui dentro tutte quelle cose, come ella andava dicendole. Mara mi guardava da capo a piedi con tanto d'occhi, e tornava a dire: - Come ti sei fatto grande! e si mise pure a ridere, e mi diede uno scapaccione qui, sulla testa.
In tal modo Jeli, il guardiano dei cavalli, perdette il pane, perché giusto in quel punto sopravveniva all'improvviso una carrozza che non si era udita prima, mentre saliva l'erta passo passo, e s'era messa al trotto com'era giunta al piano, con gran strepito di frusta e di sonagli, quasi la portasse il diavolo. I puledri, spaventati, si sbandarono in un lampo, che pareva un terremoto, e ce ne vollero delle chiamate, e delle grida e degli ohi! ohi! ohi! di Jeli e del ragazzo prima di raccoglierli attorno alla bianca, la quale anch'essa trotterellava svogliatamente, col campanaccio al collo. Appena Jeli ebbe contato le sue bestie, si accorse che mancava lo stellato, e si cacciò le mani nei capelli, perché in quel posto la strada correva lungo il burrone, e fu nel burrone che lo stellato si fracassò le reni, un puledro che valeva dodici onze come dodici angeli del paradiso! Piangendo e gridando egli andava chiamando il puledro - ahu! ahu! ahu! che non ci si vedeva ancora. Lo stellato rispose finalmente dal fondo del burrone, con un nitrito doloroso, come avesse avuto la parola, povera bestia!
- Oh! mamma mia! andavano gridando Jeli e il ragazzo. Oh! che disgrazia, mamma mia!
I viandanti che andavano alla festa, e sentivano piangere a quel modo in mezzo al buio, domandavano cosa avessero perso; e poi, come sapevano di che si trattava, andavano per la loro strada.
Lo stellato rimaneva immobile dove era caduto colle zampe in aria, e mentre Jeli l'andava tastando per ogni dove, piangendo e parlandogli quasi avesse potuto farsi intendere, la povera bestia rizzava il collo penosamente, e voltava la testa verso di lui e allora li si udiva l'anelito rotto dallo spasimo.
- Qualche cosa si sarà rotto! piagnuccolava Jeli, disperato di non poter vedere nulla pel buio; e il puledro inerte come un sasso lasciava ricadere il capo di peso. Alfio rimasto sulla strada a custodia del branco, s'era rasserenato per il primo e aveva tirato fuori il pane dalla sacca. Ora il cielo s'era fatto bianchiccio e i monti tutto intorno parevano che spuntassero ad uno ad uno, neri ed alti. Dalla svolta dello stradone si cominciava a scorgere il paese, col monte del Calvario e del Mulino a vento stampato sull'albore, ancora foschi, seminati dalle chiazze bianche delle pecore, e come i buoi che pascolavano sul cocuzzolo del monte, nell'azzurro, andavano di qua e di là, sembrava che il profilo del monte stesso si animasse e formicolasse di vita. La campana dal fondo del burrone non si udiva più, i viandanti si erano fatti più rari, e quei pochi che passavano avevano fretta di arrivare alla fiera. Il povero Jeli non sapeva a qual santo votarsi in quella solitudine; lo stesso Alfio da solo non poteva giovargli per niente; perciò costui andava sbocconcellando pian piano il suo pezzo di pane.
Finalmente si vide venire a cavallo il fattore, il quale da lontano strepitava e bestemmiava accorrendo, al vedere gli animali fermi sulla strada, sicché lo stesso Alfio se la diede a gambe per la collina. Ma Jeli non si mosse d'accanto allo stellato. Il fattore lasciò la mula sulla strada, e scese nel burrone anche lui, cercando di aiutare il puledro ad alzarsi e tirandolo per la coda. - Lasciatelo stare! diceva Jeli bianco in viso come se si fosse fracassate le reni lui. Lasciatelo stare! Non vedete che non si può muovere, povera bestia!
Lo stellato infatti ad ogni movimento, e ad ogni sforzo che gli facevano fare metteva un rantolo che pareva un cristiano. Il fattore si sfogava a calci e scapaccioni su di Jeli, e tirava pei piedi gli angeli e i santi del paradiso. Allora Alfio più rassicurato era tornato sulla strada, per non lasciare le bestie senza custodia, e badava a scolparsi dicendo: - Io non ci ho colpa. Io andavo innanzi colla bianca.
- Qui non c'è più nulla da fare, disse alfine il fattore, dopo che si persuase che era tutto tempo perso. Qui non se ne può prendere altro che la pelle, sinché è buona.
Jeli si mise a tremare come una foglia quando vide il fattore andare a staccare lo schioppo dal basto della mula. - Levati di lì, paneperso! gli urlò il fattore, ché non so chi mi tenga dallo stenderti per terra accanto a quel puledro che valeva assai più di te, con tutto il battesimo porco che ti diede quel prete ladro!
Lo stellato, non potendosi muovere, volgeva il capo con grandi occhi sbarrati quasi avesse inteso ogni cosa, e il pelo gli si arricciava ad onde, lungo le costole, sembrava ci corresse sotto un brivido. In tal modo il fattore uccise sul luogo lo stellato per cavarne almeno la pelle, e il rumore fiacco che fece dentro le carni vive il colpo tirato a bruciapelo parve a Jeli di sentirselo dentro di sé.
- Ora se vuoi sapere il mio consiglio, gli lasciò detto il fattore, cerca di non farti veder più dal padrone per quel salario che avanzi, perché te lo pagherebbe salato assai!
Il fattore se ne andò insieme ad Alfio, cogli altri puledri che non si voltavano nemmeno a vedere dove rimanesse lo stellato, e andavano strappando l'erba dal ciglione. Lo stellato se ne stava solo nel burrone, aspettando che venissero a scuoiarlo, cogli occhi ancora spalancati, e le quattro zampe distese, che allora solo aveva potuto distenderle. Jeli, ora che aveva visto come il fattore aveva potuto prender di mira il puledro che penosamente voltava la testa sbigottito, e gli fosse bastato il cuore per tirare il colpo, non piangeva più, e stava a guardare lo stellato duro duro, seduto sul sasso, fin quando arrivarono gli uomini che dovevano prendersi la pelle.
Adesso poteva andarsene a spasso, a godersi la festa, o starsene in piazza tutto il giorno, a vedere i galantuomini nel caffè, come meglio gli piaceva, ché non aveva più né pane, né tetto, e bisognava cercarsi un padrone, se pure qualcuno lo voleva, dopo la disgrazia dello stellato.
Le cose del mondo vanno così: mentre Jeli andava cercando un padrone colla sacca ad armacollo e il bastone in mano, la banda suonava in piazza allegramente, coi pennacchi nel cappello, in mezzo a una folla di berrette bianche fitte come le mosche, e i galantuomini stavano a godersela seduti nel caffè. Tutta la gente era vestita da festa, come gli animali della fiera, e in un canto della piazza c'era una donna colla gonnella corta e le calze color di carne che pareva colle gambe nude, e picchiava sulla gran cassa, davanti a un gran lenzuolo dipinto, dove si vedeva una carneficina di cristiani, col sangue che colava a torrenti, e nella folla che stava a guardare a bocca aperta c'era pure massaro Cola, il quale lo conosceva da quando stava a Passanitello, e gli disse che il padrone glielo avrebbe trovato lui, poiché compare Isidoro Macca cercava un guardiano per i porci. - Però non dir nulla dello stellato, gli raccomandò massaro Cola. Una disgrazia come questa può accadere a tutti, nel mondo. Ma è meglio non dir nulla.
Andarono perciò a cercare compare Macca, il quale era al ballo, e nel tempo che Massaro Cola andò a fare l'imbasciata Jeli aspettò sulla strada, in mezzo alla folla che stava a guardare dalla porta della bottega. Nella stanzaccia c'era un mondo di gente che saltava e si divertiva, tutti rossi e scalmanati, e facevano un gran pestare di scarponi sull'ammattonato, che non si udiva nemmeno il ron ron del contrabasso, e appena finiva una suonata, che costava un grano, levavano il dito per far segno che ne volevano un'altra; e quello del contrabasso faceva una croce col carbone sulla parete, per fare il conto all'ultimo, e ricominciava da capo. - Costoro li spendono senza pensarci, s'andava dicendo Jeli, e vuol dire che hanno la tasca piena, e non sono in angustia come me, per difetto di un padrone, se sudano e s'affannano a saltare per loro piacere come se li pagassero a giornata! - Massaro Cola tornò dicendo che compare Macca non aveva bisogno di nulla. Allora Jeli volse le spalle e se ne andò mogio mogio.
Mara stava di casa verso Sant'Antonio, dove le case s'arrampicano sul monte, di fronte al vallone della Canziria, tutto verde di fichidindia, e colle ruote dei mulini che spumeggiavano in fondo, sul torrente; ma Jeli non ebbe il coraggio di andare da quelle parti ora che non l'avevano voluto nemmeno per guardare i porci, e girandolando in mezzo alla folla che lo urtava e lo spingeva senza curarsi di lui, gli pareva di essere più solo di quando era coi puledri nelle lande di Passanitello, e si sentiva voglia di piangere. Finalmente massaro Agrippino lo incontrò nella piazza, che andava di qua e di là colle braccia ciondoloni, godendosi la festa, e cominciò a gridargli dietro - Oh! Jeli! oh! - e se lo menò a casa. Mara era in gran gala, con tanto d'orecchini che le sbattevano sulle guancie, e stava sull'uscio, colle mani sulla pancia, cariche d'anelli, ad aspettare che imbrunisse per andare a vedere i fuochi.
- Oh! gli disse Mara, sei venuto anche tu per la festa di San Giovanni!
Jeli non avrebbe voluto entrare perché era vestito male, però massaro Agrippino lo spinse per le spalle dicendogli che non si vedevano allora per la prima volta, e che si sapeva che era venuto per la fiera coi puledri del padrone. La gnà Lia gli versò un bel bicchiere di vino e vollero condurlo con loro a veder la luminaria, insieme alle comari ed ai vicini.
Arrivando in piazza, Jeli rimase a bocca aperta dalla meraviglia; tutta la piazza pareva un mare di fuoco, come quando si incendiavano le stoppie, per il gran numero di razzi che i devoti accendevano sotto gli occhi del santo, il quale stava a goderseli dall'imboccatura del Rosario, tutto nero sotto il baldacchino d'argento. I devoti andavano e venivano fra le fiamme come tanti diavoli, e c'era persino una donna discinta, spettinata, cogli occhi fuori della testa, che accendeva i razzi anch'essa, e un prete colla sottana nera, senza cappello, che pareva un ossesso dalla devozione.
- Quello lì è il figliuolo di massaro Neri, il fattore della Salonia, e spende più di dieci lire di razzi! diceva la gnà Lia accennando a un giovinotto che andava in giro per la piazza tenendo due razzi alla volta nelle mani, al pari di due candele, sicché tutte le donne se lo mangiavano cogli occhi, e gli gridavano - Viva San Giovanni.
- Suo padre è ricco e possiede più di venti capi di bestiame, aggiungeva massaro Agrippino.
Mara sapeva anche che aveva portato lo stendardo grande, nella processione e lo reggeva diritto come un fuso, tanto era forte e bel giovane.
Il figlio di massaro Neri pareva che li sentisse, e accendesse i suoi razzi per la Mara, facendo la ruota dinanzi a lei; e dopo che i fuochi furono cessati si accompagnò con loro, e li condusse al ballo, e al cosmorama, dove si vedeva il mondo vecchio e il mondo nuovo, pagando lui per tutti, anche per Jeli il quale andava dietro la comitiva come un cane senza padrone, a veder ballare il figlio di massaro Neri colla Mara, la quale girava in tondo e si accoccolava come una colombella sulle tegole, e teneva tesa con bel garbo una cocca del grembiale, e il figlio di massaro Neri saltava come un puledro, tanto che la gnà Lia piangeva come una bimba dalla consolazione, e massaro Agrippino faceva cenno di sì col capo, che la cosa andava bene.
Infine, quando furono stanchi, se ne andarono di qua e di là nel passeggio, trascinati dalla folla come fossero in mezzo a una fiumana, a vedere i trasparenti illuminati, dove tagliavano il collo a San Giovanni, che avrebbe fatto pietà agli stessi turchi, e il santo sgambettava come un capriuolo sotto la mannaja. Lì vicino c'era la banda che suonava, sotto un gran paracqua di legno tutto illuminato, e nella piazza c'era una folla tanto grande che mai s'erano visti alla fiera tanti cristiani.
Mara andava al braccio del figlio di massaro Neri come una signorina, e gli parlava nell'orecchio, e rideva che pareva si divertisse assai. Jeli non ne poteva più dalla stanchezza, e si mise a dormire seduto sul marciapiede fin quando lo svegliarono i primi petardi del fuoco d'artifizio. In quel momento Mara era sempre al fianco del figlio di massaro Neri, gli si appoggiava colle due mani intrecciate sulla spalla, e al lume dei fuochi colorati sembrava ora tutta bianca ed ora tutta rossa. Quando scapparono pel cielo gli ultimi razzi in folla, il figlio di massaro Neri si voltò verso di lei, verde in viso, e le diede un bacio.
Jeli non disse nulla, ma in quel punto gli si cambiò in veleno tutta la festa che aveva goduto sin allora, e tornò a pensare a tutte le sue disgrazie che gli erano uscite di mente, e che era rimasto senza padrone, e non sapeva più che fare, né dove andare, e non aveva più né pane né tetto, che potevano mangiarselo i cani al pari dello stellato il quale era rimasto in fondo al burrone, scuoiato sino agli zoccoli.
Intanto attorno a lui la gente faceva gazzarra ancora nel buio che si era fatto, Mara colle compagne saltava, e cantava per la stradicciuola sassosa, mentre tornavano a casa.
- Buona notte! Buona notte! andavano dicendo le compagne a misura che si lasciavano per la strada.
Mara dava la buona notte, che pareva che cantasse, tanta contentezza ci aveva nella voce e il figlio di massaro Neri poi sembrava proprio che non volesse lasciarla andare più, mentre massaro Agrippino e la gnà Lia litigavano nell'aprire l'uscio di casa. Nessuno badava a Jeli, soltanto massaro Agrippino si rammentò di lui, e gli chiese:
- Ed ora dove andrai?
- Non lo so - disse Jeli.
- Domani vieni a trovarmi, e t'aiuterò a cercar d'allogarti. Per stanotte torna in piazza dove siamo stati a sentir suonare la banda; un posto su qualche panchetta lo troverai, e a dormire allo scoperto tu devi esserci avvezzo.
Jeli c'era avvezzo, ma quello che gli faceva pena era che Mara non gli diceva nulla, e lo lasciasse a quel modo sull'uscio come un pezzente; e il domani, tornando a cercar di massaro Agrippino, appena furono soli colla ragazza le disse:
- Oh gnà Mara! come li scordate gli amici!
- Oh, sei tu Jeli? disse Mara. No, io non ti ho scordato. Ma ero così stanca dopo i fuochi!
- Gli volete bene almeno, al figlio di massaro Neri? chiese lui voltando e rivoltando il bastone fra le mani.
- Che discorsi andate facendo! rispose bruscamente la gnà Mara. Mia madre è di là che sente tutto.
Massaro Agrippino gli trovò da allogarlo come pecoraio alla Salonia, dov'era fattore massaro Neri, ma siccome Jeli era poco pratico del mestiere si dovette contentare di una grossa diminuzione di salario.
Adesso badava alle sue pecore, e ad imparare come si fa il formaggio, e la ricotta, e il caciocavallo, e ogni altro frutto di mandra, ma fra le chiacchiere che si facevano alla sera nel cortile cogli altri pastori e contadini, mentre le donne sbucciavano le fave della minestra, se si veniva a parlare del figlio di massaro Neri, il quale si prendeva in moglie Mara di massaro Agrippino, Jeli non diceva più nulla, e nemmeno osava di aprir bocca. Una volta che il campajo lo motteggiò dicendogli che Mara non aveva voluto saperne più di lui, dopo che tutti avevano detto che sarebbero stati marito e moglie, Jeli che badava alla pentola in cui bolliva il latte rispose facendo sciogliere il caglio adagio adagio:
- Ora Mara si è fatta più bella col crescere, che sembra una signora.
Però siccome egli era paziente e laborioso, imparò presto ogni cosa del mestiere meglio di uno che ci fosse nato, e siccome era avvezzo a star colle bestie amava le sue pecore come se le avesse fatte lui, e quindi il male alla Salonia non faceva tanta strage, e la mandra prosperava ch'era un piacere per massaro Neri tutte le volte che veniva alla fattoria, tanto che ad anno nuovo si persuase ad indurre il padrone perché aumentasse il salario di Jeli, sicché costui venne ad avere quasi quello che prendeva col fare il guardiano dei cavalli. Ed erano danari bene spesi, ché Jeli non badava a contar le miglia e miglia per cercare i migliori pascoli ai suoi animali, e se le pecore figliavano o erano malate se le portava a pascolare dentro le bisaccie dell'asinello, e si recava in collo gli agnelli che gli belavano sulla faccia col muso fuori del sacco, e gli poppavano le orecchie. Nella nevicata famosa della notte di Santa Lucia la neve cadde alta quattro palmi nel lago morto alla Salonia, e tutto all'intorno per miglia e miglia che non si vedeva altro per tutta la campagna, come venne il giorno, - e delle pecore non sarebbero rimaste nemmeno le orecchie, se Jeli non si fosse alzato nella notte tre o quattro volte a cacciare le pecore pel chiuso, così le povere bestie si scuotevano la neve di dosso, e non rimasero seppellite come tante ce ne furono nelle mandre vicine - a quel che disse Massaro Agrippino quando venne a dare un'occhiata ad un campicello di fave che ci aveva alla Salonia, e disse pure che di quell'altra storia del figlio di massaro Neri, il quale doveva sposare sua figlia Mara, non era vero niente, ché Mara aveva tutt'altro per il capo.
- Se avevano detto che dovevano sposarsi a Natale, disse Jeli.
- Non è vero niente, non dovevano sposare nessuno; tutte chiacchiere di gente invidiosa che si immischia negli affari altrui; rispose massaro Agrippino.
Però il campajo, il quale la sapeva più lunga, per averne sentito parlare in piazza, quando andava in paese la domenica, raccontò invece la cosa tale e quale com'era, dopo che massaro Agrippino se ne fu andato: Non si sposavano più perché il figlio di massaro Neri aveva risaputo che Mara di massaro Agrippino se la intendeva con don Alfonso, il signorino, il quale aveva conosciuta Mara da piccola; e massaro Neri aveva detto che il suo ragazzo voleva che fosse onorato come suo padre, e delle corna in casa non ne voleva altre che quelle dei suoi buoi.
Jeli era lì presente anche lui, seduto in circolo cogli altri a colezione, e in quel momento stava affettando il pane. Egli non disse nulla, ma l'appetito gli andò via per quel giorno.
Mentre conduceva al pascolo le pecore tornò a pensare a Mara quando era ragazzina, che stavano insieme tutto il giorno e andavano nella valle del Jacitano e sul poggio alla Croce, ed ella stava a guardarlo col mento in aria mentre egli si arrampicava a prendere i nidi sulle cime degli alberi; e pensava anche a don Alfonso il quale veniva a trovarlo dalla villa vicina e si sdraiavano bocconi sull'erba a stuzzicare con un fuscellino i nidi di grilli. Tutte quelle cose andava rimuginando per ore ed ore, seduto sull'orlo del fossato, tenendosi i ginocchi fra le braccia, e i noci alti di Tebidi, e le folte macchie dei valloni, e le pendici delle colline verdi di sommacchi, e gli ulivi grigi che si addossavano nella valle come nebbia, e i tetti rossi del casamento, e il campanile « che sembrava un manico di saliera » fra gli aranci del giardino. - Qui la campagna gli si stendeva dinanzi brulla, deserta, chiazzata dall'erba riarsa, sfumando silenziosa nell'afa lontana.
In primavera, appena i baccelli delle fave cominciavano a piegare il capo, Mara venne alla Salonia col babbo e la mamma, e il ragazzo e l'asinello, a raccogliere le fave, e tutti insieme venivano a dormire alla fattoria per quei due o tre giorni che durò la raccolta. Jeli in tal modo vedeva la ragazza mattina e sera, e spesso sedevano accanto sul muricciuolo dell'ovile, a discorrere insieme, mentre il ragazzo contava le pecore. - Mi pare d'essere a Tebidi, diceva Mara, quando eravamo piccoli, e stavamo sul ponticello della viottola.
Jeli si rammentava di ogni cosa anche lui, sebbene non dicesse nulla perché era stato sempre un ragazzo giudizioso e di poche parole.
Finita la raccolta, alla vigilia della partenza, Mara venne a salutare il giovanotto, nel tempo che ei stava facendo la ricotta, ed era tutto intento a raccogliere il siero colla cazza. - Ora ti dico addio, gli disse ella, perché domani torniamo a Vizzini.
- Come sono andate le fave?
- Male sono andate! la lupa le ha mangiate tutte questo anno.
- Dipende dalla pioggia che è stata scarsa, disse Jeli, noi siamo stati costretti ad uccidere anche le agnelle perché non avevano da mangiare; su tutta la Salonia non è venuta tre dita di erba.
- Ma a te poco te ne importa. Il salario l'hai sempre, buona o mal'annata!
- Sì, è vero, disse lui: ma mi rincresce dare quelle povere bestie in mano al beccajo.
- Ti ricordi quando sei venuto per la festa di San Giovanni, ed eri rimasto senza padrone?
- Sì, me ne ricordo.
- Fu mio padre che ti allogò qui, da massaro Neri.
- E tu perché non l'hai sposato il figlio di massaro Neri?
- Perché non c'era la volontà di Dio. Mio padre è stato sfortunato, riprese di lì a poco. Dacché ce ne siamo andati a Marineo ogni cosa ci è riescita male. La fava, il seminato, quel pezzetto di vigna che ci abbiamo lassù. Poi mio fratello è andato soldato, e ci è morta pure una mula che valeva quarant'onze.
- Lo so, rispose Jeli, la mula baia!
- Ora che abbiamo perso la roba, chi vuoi che mi sposi?
Mara andava sminuzzando uno sterpolino di pruno, mentre parlava, col mento sul seno, e gli occhi bassi, e col gomito stuzzicava un po' il gomito di Jeli, senza badarci. Ma Jeli cogli occhi sulla zangola anche lui non rispondeva nulla; ed ella riprese:
- A Tebidi dicevano che saremmo stati marito e moglie, lo rammenti?
- Sì, disse Jeli, e posò la cazza sull'orlo della zangola. Ma io sono un povero pecoraio e non posso pretendere alla figlia di un massaro come sei tu.
La Mara rimase un pochino zitta e poi disse:
- Se tu mi vuoi, io per me ti piglio volentieri.
- Davvero?
- Sì, davvero.
- E massaro Agrippino che cosa dirà?
- Mio padre dice che ora il mestiere lo sai, e tu non sei di quelli che vanno a spendere il loro salario, ma di un soldo ne fai due, e non mangi per non consumare il pane, così arriverai ad aver delle pecore anche tu, e ti farai ricco.
- Se è così, conchiuse Jeli, ti piglio volentieri anch'io.
- To'! gli disse Mara come si era fatto buio, e le pecore andavano tacendosi a poco a poco. Se vuoi un bacio adesso te lo dò, perché saremo marito e moglie.
Jeli se lo prese in santa pace, e non sapendo che dire soggiunse:
- Io t'ho sempre voluto bene, anche quando volevi lasciarmi pel figlio di massaro Neri; ma non ebbe cuore di dirgli di quell'altro.
- Non lo vedi? eravamo destinati! conchiuse Mara.
Massaro Agrippino infatti disse di sì, e la gnà Lia mise insieme presto presto un giubbone nuovo, e un paio di brache di velluto per il genero. Mara era bella e fresca come una rosa, con quella mantellina bianca che sembrava l'agnello pasquale, e quella collana d'ambra che le faceva il collo bianco; sicché Jeli quando andava per le strade al fianco di lei, camminava impalato, tutto vestito di panno e di velluto nuovo, e non osava soffiarsi il naso, col fazzoletto di seta rosso, per non farsi scorgere, e i vicini e tutti quelli che sapevano la storia di Don Alfonso gli ridevano sul naso. Quando Mara disse sissignore, e il prete gliela diede in moglie con un gran crocione, Jeli se la condusse a casa, e gli parve che gli avessero dato tutto l'oro della Madonna, e tutte le terre che aveva visto cogli occhi.
- Ora che siamo marito e moglie, - le disse giunti a casa, seduto di faccia a lei e facendosi piccino piccino, - ora che siamo marito e moglie posso dirtelo che non mi par vero come tu m'abbia voluto... mentre avresti potuto prenderne tanti meglio di me... così bella e graziosa come sei!...
Il poveraccio non sapeva dirle altro, e non capiva nei panni nuovi dalla contentezza di vedersi Mara per la casa, che rassettava e toccava ogni cosa, e faceva la padrona. Egli non trovava il verso di spiccicarsi dall'uscio per tornarsene alla Salonia; quando fu venuto il lunedì, indugiava nell'assettare sul basto dell'asinello le bisacce e il tabarro e il paracqua incerato. - Tu dovresti venirtene alla Salonia anche te! diceva alla moglie che stava a guardarlo dalla soglia. Tu dovresti venirtene con me. - Ma la donna si mise a ridere, e gli rispose che ella non era nata a far la pecoraia, e non aveva nulla da andare a farci alla Salonia.
Infatti Mara non era nata a far la pecoraia, e non ci era avvezza alla tramontana di gennaio quando le mani si irrigidiscono sul bastone, e sembra che vi caschino le unghie, e ai furiosi acquazzoni, in cui l'acqua vi penetra fino alle ossa, e alla polvere soffocante delle strade, quando le pecore camminano sotto il sole cocente, e al giaciglio duro e al pane muffito, e alle lunghe giornate silenziose e solitarie, in cui per la campagna arsa non si vede altro di lontano, rare volte, che qualche contadino nero dal sole, il quale si spinge innanzi silenzioso l'asinello, per la strada bianca e interminabile. Almeno Jeli sapeva che Mara stava al caldo sotto le coltri, o filava davanti al fuoco, in crocchio colle vicine, o si godeva il sole sul ballatojo, mentre egli tornava dal pascolo stanco ed assetato, o fradicio di pioggia, o quando il vento spingeva la neve dentro il casolare, e spegneva il fuoco di sarmenti. Ogni mese Mara andava a riscuotere il salario dal padrone, e non le mancavano né le uova nel pollaio, né l'olio nella lucerna, né il vino nel fiasco. Due volte al mese poi Jeli andava a trovarla, ed ella lo aspettava sul ballatojo, col fuso in mano; e dopo che egli avea legato l'asino nella stalla e toltogli il basto, messogli la biada nella greppia, e riposta la legna sotto la tettoja nel cortile, o quel che portava in cucina, Mara l'aiutava ad appendere il tabarro al chiodo, e a togliersi le gambiere di pelle, davanti al focolare, e gli versava il vino, metteva a bollire la minestra, apparecchiava il desco, cheta cheta e previdente come una brava massaia, nel tempo stesso che gli parlava di questo e di quello, della chioccia che aveva messo a covare, della tela che era sul telaio, del vitello che allevavano, senza dimenticare una sola delle faccenduole che andava facendo. Jeli quando si trovava in casa sua, si sentiva d'essere di più del papa.
Ma la notte di Santa Barbara tornò a casa ad ora insolita, che tutti i lumi erano spenti nella stradicciuola, e l'orologio della città suonava la mezzanotte. Egli veniva perché la cavalla che il padrone aveva lasciata al pascolo s'era ammalata all'improvviso, e si vedeva chiaro che quella era cosa che ci voleva il maniscalco subito subito, e ce n'era voluto per condurla sino in paese, colla pioggia che cadeva come una fiumara, e colle strade dove si sprofondava sino a mezza gamba. Tuttavia ebbe un bel bussare e chiamar Mara da dietro l'uscio, gli toccò d'aspettare mezzora sotto la grondaja, sicché l'acqua gli usciva dalle calcagna. Sua moglie venne ad aprirgli finalmente, e cominciò a strapazzarlo peggio che se fosse stata lei a scorazzare per i campi con quel tempaccio. - O cos'hai? gli domandava lui.
- Ho che m'hai fatto paura a quest'ora! che ti par ora da cristiani questa? Domani sarò ammalata!
- Va' a coricarti, il fuoco l'accenderò io.
- No, bisogna che vada a prender la legna.
- Andrò io.
- No, ti dico!
Quando Mara ritornò colla legna nelle braccia Jeli le disse:
- Perché hai aperto l'uscio del cortile? Non ce n'era più di legna in cucina?
- No, sono andata a prenderla sotto la tettoja.
Ella si lasciò baciare, fredda fredda, e volse il capo dall'altra parte.
- Sua moglie lo lascia a infradiciare dietro l'uscio, dicevano i vicini, quando in casa c'è il tordo!
Ma Jeli non sapeva nulla, ch'era becco, né gli altri si curavano di dirglielo, perché a lui non gliene importava niente, e s'era accollata la donna col danno, dopo che il figlio di massaro Neri l'aveva piantata per aver saputo la storia di don Alfonso. Jeli invece ci viveva beato e contento nel vituperio, e s'ingrassava come un majale, « ché le corna sono magre, ma mantengono la casa grassa! ».
Una volta infine il ragazzo della mandra glielo disse in faccia, mentre si abbaruffavano per le pezze di formaggio che si trovavano tosate. - Ora che don Alfonso vi ha preso la moglie, vi pare di essere suo cognato, e avete messo superbia che vi par di essere un re di corona con quelle corna che avete in testa.
Il fattore e il campajo si aspettavano di veder scorrere il sangue a quelle parole; ma invece Jeli rimase istupidito come se non le avesse udite, o come se non fosse stato fatto suo, con una faccia da bue che le corna gli stavano bene davvero.
Ora si avvicinava la Pasqua e il fattore mandava tutti gli uomini della fattoria a confessarsi, colla speranza che pel timor di Dio non rubassero più. Jeli andò anche lui e all'uscir di chiesa cercò del ragazzo con cui erano corse quelle parole e gli buttò le braccia al collo dicendogli:
- Il confessore mi ha detto di perdonarti; ma io non sono in collera con te per quelle chiacchiere; e se tu non toserai più il formaggio a me non me ne importa nulla di quello che mi hai detto nella collera.
Fu da quel momento che lo chiamarono per soprannome Corna d'oro, e il soprannome gli rimase, a lui e tutti i suoi, anche dopo che ei si lavò le corna nel sangue.
La Mara era andata a confessarsi anche lei, e tornava di chiesa tutta raccolta nella mantellina, e cogli occhi bassi che sembrava una santa Maria Maddalena. Jeli il quale l'aspettava taciturno sul ballatojo, come la vide venire a quel modo, che si vedeva come ci avesse il Signore in corpo, la stava a guardare pallido pallido dai piedi alla testa, come la vedesse per la prima volta, o gliela avessero cambiata la sua Mara, e quasi non osava alzare gli occhi su di lei, mentre ella sciorinava la tovaglia, e metteva in tavola le scodelle, tranquilla e pulita al suo solito.
Poi dopo averci pensato un gran pezzo le domandò:
- È vero che te la intendi con don Alfonso?
Mara gli piantò in faccia i suoi occhioni neri neri e si fece il segno della croce. - Perché volete farmi far peccato in questo giorno! esclamò.
- Io non ci ho creduto, perché con don Alfonso eravamo sempre insieme, quando eravamo ragazzi, e non passava giorno ch'ei non venisse a Tebidi, quand'era in campagna lì vicino. E poi egli è ricco che i denari li ha a palate, e se volesse delle donne potrebbe maritarsi, né gli mancherebbe la roba, o il pane da mangiare.
Mara però andavasi riscaldando, e cominciò a strapazzarlo in mal modo, sicché il poveraccio non osava alzare il naso dal piatto.
Infine perché quella grazia di Dio che stavano mangiando non andasse in tossico Mara cambiò discorso, e gli domandò se ci avesse pensato a far zappare quel po' di lino che avevano seminato nel campo delle fave.
- Sì, rispose Jeli, e il lino verrà bene.
- Se è così, disse Mara, in questo inverno ti farò due camicie nuove che ti terranno caldo.
Insomma Jeli non lo capiva quello che vuol dire becco, e non sapeva cosa fosse la gelosia; ogni cosa nuova stentava ad entrargli in capo, e questa poi gli riesciva così grossa che addirittura faceva una fatica del diavolo ad entrarci; massime allorché si vedeva dinanzi la sua Mara, tanto bella, e bianca, e pulita, che l'aveva voluto ella stessa, ed alla quale egli aveva pensato tanti anni e tanti anni, fin da quando era ragazzo, che il giorno in cui gli avevano detto com'ella volesse sposarne un altro non aveva avuto più cuore di mangiare o di bere tutto il giorno - ed anche se pensava a don Alfonso, col quale erano stati tante volte insieme, ed ei gli portava ogni volta dei dolci e del pane bianco, gli pareva di averlo tuttora dinanzi agli occhi con quei vestitini nuovi, e i capelli ricciuti, e il viso bianco e liscio come una fanciulla, e dacché non lo aveva più visto, perché egli era un povero pecoraio, e stava tutto l'anno in campagna, gli era sempre rimasto in cuore a quel modo. Ma la prima volta che per sua disgrazia rivide don Alfonso, dopo tanti anni, Jeli si sentì dentro come se lo cuocessero. Don Alfonso s'era fatto grande, da non sembrare più quello; ed ora aveva una bella barba ricciuta al pari dei capelli, e una giacchetta di velluto, e una catenella d'oro sul panciotto. Però riconobbe Jeli, e gli batté anche sulle spalle salutandolo. Era venuto col padrone della fattoria insieme a una brigata d'amici, a fare una scampagnata nel tempo che si tosavano le pecore; ed era venuta pure Mara all'improvviso col pretesto che era incinta e aveva voglia di ricotta fresca.
Era una bella giornata calda, nei campi biondi, colle siepi in fiore, e i lunghi filari verdi delle vigne, le pecore saltellavano e belavano dal piacere, al sentirsi spogliate da tutta quella lana, e nella cucina le donne facevano un gran fuoco per cuocere la gran roba che il padrone aveva portato per il desinare. I signori intanto che aspettavano si erano messi all'ombra, sotto i carrubi, e facevano suonare i tamburelli e le cornamuse, e ballavano colle donne della fattoria che parevano tutt'una cosa. Jeli mentre andava tosando le pecore, si sentiva qualcosa dentro di sé, senza sapere perché, come uno spino, come un chiodo, come una forbice che gli lavorasse internamente minuta minuta, come un veleno. Il padrone aveva ordinato che gli sgozzassero due capretti, e il castrato di un anno, e dei polli, e un tacchino. Insomma voleva fare le cose in grande, e senza risparmio, per farsi onore coi suoi amici, e mentre tutte quelle bestie schiamazzavano dal dolore, e i capretti strillavano sotto il coltello, Jeli si sentiva tremare le ginocchia e di tratto in tratto gli pareva che la lana che andava tosando e l'erba in cui le pecore saltellavano avvampassero di sangue.
- Non andare! disse egli a Mara, come don Alfonso la chiamava perché venisse a ballare cogli altri. Non andare, Mara!
- Perché?
- Non voglio che tu vada. Non andare!
- Lo senti che mi chiamano.
Egli non profferiva più alcuna parola intelligibile, mentre stava curvo sulle pecore che tosava. Mara si strinse nelle spalle, e se ne andò a ballare. Ella era rossa ed allegra cogli occhi neri che sembravano due stelle, e rideva che le si vedevano i denti bianchi, e tutto l'oro che aveva indosso le sbatteva e le scintillava sulle guancie e sul petto che pareva la Madonna tale e quale. Jeli s'era rizzato sulla vita, colla lunga forbice in pugno, e così bianco in viso, così bianco come aveva visto una volta suo padre il vaccajo, quando tremava di febbre accanto al fuoco, nel casolare. Tutt'a un tratto come vide che don Alfonso, colla bella barba ricciuta, e la giacchetta di velluto e la catenella d'oro sul panciotto, prese Mara per la mano per ballare, solo allora, come vide che la toccava, si slanciò su di lui, e gli tagliò la gola di un sol colpo, proprio come un capretto.
Più tardi, mentre lo conducevano dinanzi al giudice, legato, disfatto, senza che avesse osato opporre la menoma resistenza:
- Come! - diceva - Non dovevo ucciderlo nemmeno?... Se mi aveva preso la Mara!...



ROSSO MALPELO


Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre col sentirgli dir sempre a quel modo aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo.
Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c'era anche a temere che ne sottraesse un paio di quei soldi; e nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni.
Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vedersi davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro.
Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po' di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel suo pane di otto giorni, come fanno le bestie sue pari; e ciascuno gli diceva la sua motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c'ingrassava fra i calci e si lasciava caricare meglio dell'asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e lordo di rena rossa, ché la sua sorella s'era fatta sposa, e aveva altro pel capo: nondimeno era conosciuto come la bettonica per tutto Monserrato e la Carvana, tanto che la cava dove lavorava la chiamavano « la cava di Malpelo », e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e perché mastro Misciu, suo padre, era morto nella cava.
Era morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo, di un pilastro lasciato altra volta per sostegno nella cava, e che ora non serviva più, e s'era calcolato così ad occhio col padrone per 35 o 40 carra di rena. Invece mastro Misciu sterrava da tre giorni e ne avanzava ancora per la mezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l'asino da basto di tutta la cava. Ei, povero diavolaccio, lasciava dire e si contentava di buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe. Malpelo faceva un visaccio come se quelle soperchierie cascassero sulle sue spalle, e così piccolo com'era aveva di quelle occhiate che facevano dire agli altri: - Va' là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre.
Invece nemmen suo padre ci morì nel suo letto, tuttoché fosse una buona bestia. Zio Mommu lo sciancato, aveva detto che quel pilastro lì ei non l'avrebbe tolto per venti onze, tanto era pericoloso; ma d'altra parte tutto è pericoloso nelle cave, e se si sta a badare al pericolo, è meglio andare a fare l'avvocato.
Adunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che l'avemaria era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e se n'erano andati dicendogli di divertirsi a grattarsi la pancia per amor del padrone, e raccomandandogli di non fare la morte del sorcio. Ei, che c'era avvezzo alle beffe, non dava retta, e rispondeva soltanto cogli ah! ah! dei suoi bei colpi di zappa in pieno; e intanto borbottava: - Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata! - e così andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo appalto - il cottimante!
Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e girava al pari di un arcolaio; ed il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco come se avesse il mal di pancia, e dicesse: ohi! ohi! anch'esso. Malpelo andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco vuoto ed il fiasco del vino. Il padre che gli voleva bene, poveretto, andava dicendogli: « Tirati indietro! » oppure « Sta' attento! Sta' attento se cascano dall'alto dei sassolini o della rena grossa ». Tutt'a un tratto non disse più nulla, e Malpelo, che si era voltato a riporre i ferri nel corbello, udì un rumore sordo e soffocato, come fa la rena allorché si rovescia tutta in una volta; ed il lume si spense.
Quella sera in cui vennero a cercare in tutta fretta l'ingegnere che dirigeva i lavori della cava ei si trovava a teatro, e non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, perch'era gran dilettante. Rossi rappresentava l'Amleto, e c'era un bellissimo teatro. Sulla porta si vide accerchiato da tutte le femminucce di Monserrato, che strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia ch'era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i denti quasi fosse in gennaio. L'ingegnere, quando gli ebbero detto che il caso era accaduto da circa quattro ore, domandò cosa venissero a fare da lui dopo quattro ore. Nondimeno ci andò con scale e torcie a vento, ma passarono altre due ore, e fecero sei, e lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo dal materiale caduto ci voleva una settimana.
Altro che quaranta carra di rena! Della rena ne era caduta una montagna, tutta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani e dovea prendere il doppio di calce. Ce n'era da riempire delle carra per delle settimane. Il bell'affare di mastro Bestia!
L'ingegnere se ne tornò a veder seppellire Ofelia; e gli altri minatori si strinsero nelle spalle, e se ne tornarono a casa ad uno ad uno. Nella ressa e nel gran chiacchierìo non badarono a una voce di fanciullo, la quale non aveva più nulla di umano, e strillava: - Scavate! scavate qui! presto! - To'! - disse lo sciancato - è Malpelo! - Da dove è venuto fuori Malpelo? - Se tu non fossi stato Malpelo, non te la saresti scappata, no! - Gli altri si misero a ridere, e chi diceva che Malpelo avea il diavolo dalla sua, un altro che avea il cuoio duro a mo' dei gatti. Malpelo non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà nella rena, dentro la buca, sicché nessuno s'era accorto di lui; e quando si accostarono col lume gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e tale schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza.
Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnuccolando ve lo condusse per mano; giacché, alle volte il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là. Anzi non volle più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre. Alle volte, mentre zappava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli susurrava negli orecchi, dall'altra parte della montagna di rena caduta. In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, come se non fosse grazia di Dio. Il cane gli voleva bene, perché i cani non guardano altro che la mano la quale dà loro il pane. Ma l'asino grigio, povera bestia, sbilenca e macilenta, sopportava tutto lo sfogo della cattiveria di Malpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava: - Così creperai più presto!
Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll'anello di ferro al naso. Sapendo che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un pezzo di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s'immaginava gli avessero fatto, a lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cui l'avevano lasciato crepare. E quando era solo borbottava: « Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché ei non faceva così! ». E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con un'occhiata torva: « È stato lui, per trentacinque tarì! ». E un'altra volta, dietro allo sciancato: « E anche lui! e si metteva a ridere! Io l'ho udito, quella sera! ».
Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta da un ponte s'era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Il poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che sembrava ballasse la tarantella, e aveva fatto ridere tutti quelli della cava, così che gli avevano messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così ranocchio com'era, il suo pane se lo buscava; e Malpelo gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano.
Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore accanimento, e gli diceva: - To'! Bestia! Bestia sei! Se non ti senti l'animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello!
O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca o dalle narici: - Così, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu! - Quando cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare gli zoccoli, rifinito, curvo sotto il peso, ansante e coll'occhio spento, ei lo batteva senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma stremo di forze non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n'era uno il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe; e Malpelo allora confidava a Ranocchio: - L'asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e s'ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi.
Oppure: - Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi; così coloro su cui cadranno ti terranno per da più di loro, e ne avrai tanti di meno addosso.
Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo' di uno che l'avesse con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegli ah! ah! che aveva suo padre. - La rena è traditora, diceva a Ranocchio sottovoce; somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere. Mio padre la batteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano Bestia, e la rena se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui.
Ogni volta che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e Ranocchio piagnuccolava a guisa di una femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso e lo sgridava: - Taci pulcino! - e se Ranocchio non la finiva più, ei gli dava una mano, dicendo con un certo orgoglio: - Lasciami fare; io sono più forte di te. - Oppure gli dava la sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e si stringeva nelle spalle, aggiungendo: - Io ci sono avvezzo.
Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi, colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore dì lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva che la razione di busse non gliela aveva levata mai il padrone; ma le busse non costavano nulla. Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, a tradimento, con qualche tiro di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il diavolo: perciò ei si pigliava sempre i castighi anche quando il colpevole non era stato lui; già se non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro sarebbe stato inutile. E qualche volta come Ranocchio spaventato lo scongiurava piangendo di dire la verità e di scolparsi, ei ripeteva: - A che giova? Sono malpelo! - e nessuno avrebbe potuto dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto di bieco orgoglio o di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua fosse salvatichezza o timidità. Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai.
Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano addosso da ogni parte, la sorella afferrava il manico della scopa se si metteva sull'uscio in quell'arnese, ché avrebbe fatto scappare il suo damo se avesse visto che razza di cognato gli toccava sorbirsi; la madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli andava a rannicchiarsi sul suo saccone come un cane malato. Adunque, la domenica, in cui tutti gli altri ragazzi del vicinato si mettevano la camicia pulita per andare a messa o per ruzzare nel cortile, ei sembrava non avesse altro spasso che di andar randagio per le vie degli orti, a dar la caccia a sassate alle povere lucertole, le quali non gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei fichidindia. Per altro le beffe e le sassate degli altri fanciulli non gli piacevano.
La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese, come dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati e selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena, brutto e cencioso e sbracato com'era, non lo beffavano più, e sembrava fatto apposta per quel mestiere persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gatto che ammiccavano se vedevano il sole. Così ci sono degli asini che lavorano nelle cave per anni ed anni senza uscirne mai più, ed in quei sotterranei, dove il pozzo di ingresso è verticale, ci si calan colle funi, e ci restano finché vivono. Sono asini vecchi, è vero, comprati dodici o tredici lire, quando stanno per portarli alla Plaja, a strangolarli; ma pel lavoro che hanno da fare laggiù sono ancora buoni; e Malpelo, certo, non valeva di più, e se veniva fuori dalla cava il sabato sera, era perché aveva anche le mani per aiutarsi colla fune, e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana.
Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come Ranocchio, e lavorare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all'azzurro del cielo, col sole sulla schiena - o il carrettiere, come compare Gaspare che veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca, e andava tutto il giorno per le belle strade di campagna - o meglio ancora avrebbe voluto fare il contadino che passa la vita fra i campi, in mezzo al verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa. Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui. E pensando a tutto ciò, indicava a Ranocchio il pilastro che era caduto addosso al genitore, e dava ancora della rena fina e bruciata che il carrettiere veniva a caricare colla pipa in bocca, e dondolandosi sulle stanghe, e gli diceva che quando avrebbero finito di sterrare si sarebbe trovato il cadavere di suo padre, il quale doveva avere dei calzoni di fustagno quasi nuovi. Ranocchio aveva paura, ma egli no. Ei narrava che era stato sempre là, da bambino, e aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sotterra, dove il padre soleva condurlo per mano. Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e descriveva come l'intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi dappertutto, di qua e di là, sin dove potevano vedere la sciara nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n'erano rimasti tanti, o schiacciati, o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora, senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente.
Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe di mastro Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all'aria aperta colle funi, proprio come un asino che stesse per dar dei calci al vento. Però non si poterono trovare né i calzoni quasi nuovi, né il rimanente di mastro Misciu; sebbene i pratici asserissero che quello dovea essere il luogo preciso dove il pilastro gli si era rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo del mestiere, osservava curiosamente come fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il Bestia di qua e di là, le scarpe da una parte e i piedi dall'altra.
Dacché poi fu trovata quella scarpa, Malpelo fu colto da tal paura di veder comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi un colpo di zappa; gliela dessero a lui sul capo, la zappa. Egli andò a lavorare in un altro punto della galleria e non volle più tornare da quelle parti. Due o tre giorni dopo scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva dovuto stentar molto a morire, perché il pilastro gli si era piegato in arco addosso, e l'aveva seppellito vivo; si poteva persino vedere tuttora che mastro Bestia avea tentato istintivamente di liberarsi scavando nella rena, e avea le mani lacerate e le unghie rotte. - Proprio come suo figlio Malpelo! - ripeteva lo sciancato - ei scavava di qua, mentre suo figlio scavava di là. - Però non dissero nulla al ragazzo per la ragione che lo sapevano maligno e vendicativo.
Il carrettiere sbarazzò il sotterraneo dal cadavere al modo istesso che lo sbarazzava dalla rena caduta e dagli asini morti, ché stavolta oltre al lezzo del carcame, c'era che il carcame era di carne battezzata; e la vedova rimpiccolì i calzoni e la camicia, e li adattò a Malpelo, il quale così fu vestito quasi a nuovo per la prima volta, e le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacché rimpiccolirsi le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non ne aveva volute di scarpe del morto.
Malpelo se li lisciava sulle gambe quei calzoni di fustagno quasi nuovo, gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo che solevano accarezzargli i capelli, così ruvidi e rossi com'erano. Quelle scarpe le teneva appese ad un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l'una accanto all'altra, e stava a contemplarsele coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme per delle ore intere, rimugginando chi sa quali idee in quel cervellaccio.
Ei possedeva delle idee strane, Malpelo! Siccome aveva ereditato anche il piccone e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti per l'età sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pagati come nuovi, egli aveva risposto di no; suo padre li ha resi così lisci e lucenti nel manico colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più lisci e lucenti di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni.
In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l'asino grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo lontano nella sciara. - Così si fa, brontolava Malpelo; gli arnesi che non servono più si buttano lontano. - Ei andava a visitare il carcame del grigio in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche Ranocchio, il quale non avrebbe voluto andarci; e Malpelo gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa bella o brutta; e stava a considerare con l'avida curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del grigio. I cani scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando sui greppi dirimpetto, ma il Rosso non lasciava che Ranocchio li scacciasse a sassate. - Vedi quella cagna nera, gli diceva, che non ha paura delle tue sassate; non ha paura perché ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole! Adesso non soffriva più, l'asino grigio, e se ne stava tranquillo colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde e a spolpargli le ossa bianche e i denti che gli laceravano le viscere non gli avrebbero fatto piegar la schiena come il più semplice colpo di badile che solevano dargli onde mettergli in corpo un po' di vigore quando saliva la ripida viuzza. Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche, e anch'esso quando piegava sotto il peso e gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: Non più! non più! Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche con quella bocca spolpata e tutta denti. E se non fosse mai nato sarebbe stato meglio.
La sciara si stendeva malinconica e deserta fin dove giungeva la vista, e saliva e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o un uccello che vi volasse su. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone di coloro che lavoravano sotterra. E ogni volta Malpelo ripeteva che al di sotto era tutta scavata dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle; tanto che una volta un minatore c'era entrato coi capelli neri, e n'era uscito coi capelli bianchi, e un altro cui s'era spenta la torcia aveva invano gridato aiuto ma nessuno poteva udirlo. Egli solo ode le sue stesse grida! diceva, e a quell'idea, sebbene avesse il cuore più duro della sciara, trasaliva.
- Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura d'andare. Ma io sono Malpelo, e se io non torno più, nessuno mi cercherà.
Pure, durante le belle notti d'estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla sciara, e la campagna circostante era nera anch'essa, come la sciara, ma Malpelo stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi quella quiete e quella luminaria dell'alto; perciò odiava le notti di luna, in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là vagamente - allora la sciara sembra più brulla e desolata. - Per noi che siamo fatti per vivere sotterra, pensava Malpelo, ci dovrebbe essere buio sempre e dappertutto. - La civetta strideva sulla sciara, e ramingava di qua e di là; ei pensava: - Anche la civetta sente i morti che son qua sotterra e si dispera perché non può andare a trovarli.
Ranocchio aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il Rosso lo sgridava perché chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l'asino grigio aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni non sentivano più il dolore di esser mangiate.
- Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti come i gatti - gli diceva - e allora era tutt'altra cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sotterra, come i topi, non bisogna più aver paura dei topi, né dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali, e i topi ci stanno volentieri in compagnia dei morti.
Ranocchio invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci stessero a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù c'era il paradiso, dove vanno a stare i morti che sono stati buoni e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori. - Chi te l'ha detto? - domandava Malpelo, e Ranocchio rispondeva che glielo aveva detto la mamma.
Allora Malpelo si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da monellaccio malizioso che la sa lunga. - Tua madre ti dice così perché, invece dei calzoni, tu dovresti portar la gonnella. -
E dopo averci pensato su un po':
- Mio padre era buono e non faceva male a nessuno, tanto che gli dicevano Bestia. Invece è là sotto, ed hanno persino trovato i ferri e le scarpe e questi calzoni qui che ho indosso io. -
Da lì a poco, Ranocchio il quale deperiva da qualche tempo, si ammalò in modo che la sera dovevano portarlo fuori dalla cava sull'asino, disteso fra le corbe, tremante di febbre come un pulcin bagnato. Un operaio disse che quel ragazzo non ne avrebbe fatto osso duro a quel mestiere, e che per lavorare in una miniera senza lasciarvi la pelle bisognava nascervi. Malpelo allora si sentiva orgoglioso di esserci nato e di mantenersi così sano e vigoroso in quell'aria malsana, e con tutti quegli stenti. Ei si caricava Ranocchio sulle spalle, e gli faceva animo alla sua maniera, sgridandolo e picchiandolo. Ma una volta nel picchiarlo sul dorso Ranocchio fu colto da uno sbocco di sangue, allora Malpelo spaventato si affannò a cercargli nel naso e dentro la bocca cosa gli avesse fatto, e giurava che non avea potuto fargli quel gran male, così come l'aveva battuto, e a dimostrarglielo, si dava dei gran pugni sul petto e sulla schiena con un sasso; anzi un operaio, lì presente, gli sferrò un gran calcio sulle spalle, un calcio che risuonò come su di un tamburo, eppure Malpelo non si mosse, e soltanto dopo che l'operaio se ne fu andato, aggiunse: - Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E ha picchiato più forte di me, ti giuro!
Intanto Ranocchio non guariva e seguitava a sputar sangue, e ad aver la febbre tutti i giorni. Allora Malpelo rubò dei soldi della paga della settimana, per comperargli del vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi nuovi che lo coprivano meglio. Ma Ranocchio tossiva sempre e alcune volte sembrava soffocasse, e la sera non c'era modo di vincere il ribrezzo della febbre, né con sacchi, né coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla fiammata. Malpelo se ne stava zitto ed immobile chino su di lui, colle mani sui ginocchi, fissandolo con quei suoi occhiacci spalancati come se volesse fargli il ritratto, e allorché lo udiva gemere sottovoce, e gli vedeva il viso trafelato e l'occhio spento, preciso come quello dell'asino grigio allorché ansava rifinito sotto il carico nel salire la viottola, ei gli borbottava: - È meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire in tal modo, è meglio che tu crepi! - E il padrone diceva che Malpelo era capace di schiacciargli il capo a quel ragazzo, e bisognava sorvegliarlo.
Finalmente un lunedì Ranocchio non venne più alla cava, e il padrone se ne lavò le mani, perché allo stato in cui era ridotto oramai era più di impiccio che d'altro. Malpelo si informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il povero Ranocchio era più di là che di qua, e sua madre piangeva e si disperava come se il suo figliolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana.
Cotesto non arrivava a comprendere Malpelo, e domandò a Ranocchio perché sua madre strillasse a quel modo, mentre che da due mesi ei non guadagnava nemmeno quel che si mangiava. Ma il povero Ranocchio non gli dava retta e sembrava che badasse a contare quanti travicelli c'erano sul tetto. Allora il Rosso si diede ad almanaccare che la madre di Ranocchio strillasse a quel modo perché il suo figliuolo era sempre stato debole e malaticcio, e l'aveva tenuto come quei marmocchi che non si slattano mai. Egli invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui perché non aveva mai avuto timore di perderlo.
Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò che la civetta adesso strideva anche per lui nella notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del grigio, nel burrone dove solevano andare insieme con Ranocchio. Ora del grigio non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato così, e sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la madre di Malpelo s'era asciugati i suoi dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata un'altra volta, ed era andata a stare a Cifali; anche la sorella si era maritata e avevano chiusa la casa. D'ora in poi, se lo battevano, a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, e quando sarebbe divenuto come il grigio o come Ranocchio, non avrebbe sentito più nulla.
Verso quell'epoca venne a lavorare nella cava uno che non s'era mai visto, e si teneva nascosto il più che poteva; gli altri operai dicevano fra di loro che era scappato dalla prigione, e se lo pigliavano ce lo tornavano a chiudere per degli anni e degli anni. Malpelo seppe in quell'occasione che la prigione era un luogo dove si mettevano i ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sempre chiusi là dentro e guardati a vista.
Da quel momento provò una malsana curiosità per quell'uomo che aveva provata la prigione e n'era scappato. Dopo poche settimane però il fuggitivo dichiarò chiaro e tondo che era stanco di quella vitaccia da talpa e piuttosto si contentava di stare in galera tutta la vita, ché la prigione, in confronto, era un paradiso e preferiva tornarci coi suoi piedi. - Allora perché tutti quelli che lavorano nella cava non si fanno mettere in prigione? - domandò Malpelo.
- Perché non sono malpelo come te! - rispose lo sciancato. - Ma non temere, che tu ci andrai e ci lascerai le ossa.
Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo, come suo padre, ma in modo diverso. Una volta si doveva esplorare un passaggio che si riteneva comunicasse col pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa era vera, si sarebbe risparmiata una buona metà di mano d'opera nel cavar fuori la rena. Ma se non era vero, c'era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun padre di famiglia voleva avventurarvisi, né avrebbe permesso che ci si arrischiasse il sangue suo per tutto l'oro del mondo.
Ma Malpelo non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l'oro del mondo per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tutto l'oro del mondo; sua madre si era rimaritata e se n'era andata a stare a Cifali, e sua sorella s'era maritata anch'essa. La porta della casa era chiusa, ed ei non aveva altro che le scarpe di suo padre appese al chiodo; perciò gli commettevano sempre i lavori più pericolosi, e le imprese più arrischiate, e s'ei non si aveva riguardo alcuno, gli altri non ne avevano certamente per lui. Quando lo mandarono per quella esplorazione si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina ancora al buio gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo; ma non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, e il fiasco del vino, e se ne andò: né più si seppe nulla di lui.
Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.



CAVALLERIA RUSTICANA


Turiddu Macca, il figlio della gnà Nunzia, come tornò da fare il soldato, ogni domenica si pavoneggiava in piazza coll'uniforme da bersagliere e il berretto rosso, che sembrava quello della buona ventura, quando mette su banco colla gabbia dei canarini. Le ragazze se lo rubavano cogli occhi, mentre andavano a messa col naso dentro la mantellina, e i monelli gli ronzavano attorno come le mosche. Egli aveva portato anche una pipa col re a cavallo che pareva vivo, e accendeva gli zolfanelli sul dietro dei calzoni, levando la gamba, come se desse una pedata. Ma con tutto ciò Lola di massaro Angelo non si era fatta vedere né alla messa, né sul ballatoio ché si era fatta sposa con uno di Licodia, il quale faceva il carrettiere e aveva quattro muli di Sortino in stalla. Dapprima Turiddu come lo seppe, santo diavolone! voleva trargli fuori le budella dalla pancia, voleva trargli, a quel di Licodia! però non ne fece nulla, e si sfogò coll'andare a cantare tutte le canzoni di sdegno che sapeva sotto la finestra della bella.
- Che non ha nulla da fare Turiddu della gnà Nunzia, dicevano i vicini, che passa le notti a cantare come una passera solitaria?
Finalmente s'imbatté in Lola che tornava dal viaggio alla Madonna del Pericolo, e al vederlo, non si fece né bianca né rossa quasi non fosse stato fatto suo.
- Beato chi vi vede! le disse.
- Oh, compare Turiddu, me l'avevano detto che siete tornato al primo del mese.
- A me mi hanno detto delle altre cose ancora! rispose lui. Che è vero che vi maritate con compare Alfio, il carrettiere?
- Se c'è la volontà di Dio! rispose Lola tirandosi sul mento le due cocche del fazzoletto.
- La volontà di Dio la fate col tira e molla come vi torna conto! E la volontà di Dio fu che dovevo tornare da tanto lontano per trovare ste belle notizie, gnà Lola!
Il poveraccio tentava di fare ancora il bravo, ma la voce gli si era fatta roca; ed egli andava dietro alla ragazza dondolandosi colla nappa del berretto che gli ballava di qua e di là sulle spalle. A lei, in coscienza, rincresceva di vederlo così col viso lungo, però non aveva cuore di lusingarlo con belle parole.
- Sentite, compare Turiddu, gli disse alfine, lasciatemi raggiungere le mie compagne. Che direbbero in paese se mi vedessero con voi?...
- È giusto, rispose Turiddu; ora che sposate compare Alfio, che ci ha quattro muli in stalla, non bisogna farla chiacchierare la gente. Mia madre invece, poveretta, la dovette vendere la nostra mula baia, e quel pezzetto di vigna sullo stradone, nel tempo ch'ero soldato. Passò quel tempo che Berta filava, e voi non ci pensate più al tempo in cui ci parlavamo dalla finestra sul cortile, e mi regalaste quel fazzoletto, prima d'andarmene, che Dio sa quante lagrime ci ho pianto dentro nell'andar via lontano tanto che si perdeva persino il nome del nostro paese. Ora addio, gnà Lola, facemu cuntu ca chioppi e scampau, e la nostra amicizia finiu.
La gnà Lola si maritò col carrettiere; e la domenica si metteva sul ballatoio, colle mani sul ventre per far vedere tutti i grossi anelli d'oro che le aveva regalati suo marito. Turiddu seguitava a passare e ripassare per la stradicciuola, colla pipa in bocca e le mani in tasca, in aria d'indifferenza, e occhieggiando le ragazze; ma dentro ci si rodeva che il marito di Lola avesse tutto quell'oro, e che ella fingesse di non accorgersi di lui quando passava. - Voglio fargliela proprio sotto gli occhi a quella cagnaccia! borbottava.
Di faccia a compare Alfio ci stava massaro Cola, il vignaiuolo, il quale era ricco come un maiale, dicevano, e aveva una figliuola in casa. Turiddu tanto disse e tanto fece che entrò camparo da massaro Cola, e cominciò a bazzicare per la casa e a dire le paroline dolci alla ragazza.
- Perché non andate a dirle alla gnà Lola ste belle cose? rispondeva Santa.
- La gnà Lola è una signorona! La gnà Lola ha sposato un re di corona, ora!
- Io non me li merito i re di corona.
- Voi ne valete cento delle Lole, e conosco uno che non guarderebbe la gnà Lola, né il suo santo, quando ci siete voi, ché la gnà Lola, non è degna di portarvi le scarpe, non è degna.
- La volpe quando all'uva non ci poté arrivare...
- Disse: come sei bella, racinedda mia!
- Ohé! quelle mani, compare Turiddu.
- Avete paura che vi mangi?
- Paura non ho né di voi, né del vostro Dio.
- Eh! vostra madre era di Licodia, lo sappiamo! Avete il sangue rissoso! Uh! che vi mangerei cogli occhi!
- Mangiatemi pure cogli occhi, che briciole non ne faremo; ma intanto tiratemi su quel fascio.
- Per voi tirerei su tutta la casa, tirerei!
Ella, per non farsi rossa, gli tirò un ceppo che aveva sottomano, e non lo colse per miracolo.
- Spicciamoci, che le chiacchiere non ne affastellano sarmenti.
- Se fossi ricco, vorrei cercarmi una moglie come voi, gnà Santa.
- Io non sposerò un re di corona come la gnà Lola, ma la mia dote ce l'ho anch'io, quando il Signore mi manderà qualcheduno.
- Lo sappiamo che siete ricca, lo sappiamo!
- Se lo sapete allora spicciatevi, ché il babbo sta per venire, e non vorrei farmi trovare nel cortile.
Il babbo cominciava a torcere il muso, ma la ragazza fingeva di non accorgersi, poiché la nappa del berretto del bersagliere gli aveva fatto il solletico dentro il cuore, e le ballava sempre dinanzi gli occhi. Come il babbo mise Turiddu fuori dell'uscio, la figliuola gli aprì la finestra, e stava a chiacchierare con lui tutta la sera, che tutto il vicinato non parlava d'altro.
- Per te impazzisco, diceva Turiddu, e perdo il sonno e l'appetito.
- Chiacchiere.
- Vorrei essere il figlio di Vittorio Emanuele per sposarti!
- Chiacchiere.
- Per la Madonna che ti mangerei come il pane!
- Chiacchiere!
- Ah! sull'onor mio!
- Ah! mamma mia!
Lola che ascoltava ogni sera, nascosta dietro il vaso di basilico, e si faceva pallida e rossa, un giorno chiamò Turiddu.
- E così, compare Turiddu, gli amici vecchi non si salutano più?
- Ma! sospirò il giovinotto, beato chi può salutarvi!
- Se avete intenzione di salutarmi, lo sapete dove sto di casa! rispose Lola.
Turiddu tornò a salutarla così spesso che Santa se ne avvide, e gli batté la finestra sul muso. I vicini se lo mostravano con un sorriso, o con un moto del capo, quando passava il bersagliere. Il marito di Lola era in giro per le fiere con le sue mule.
- Domenica voglio andare a confessarmi, ché stanotte ho sognato dell'uva nera, disse Lola.
- Lascia stare! lascia stare! supplicava Turiddu.
- No, ora che s'avvicina la Pasqua, mio marito lo vorrebbe sapere il perché non sono andata a confessarmi.
- Ah! mormorava Santa di massaro Cola, aspettando ginocchioni il suo turno dinanzi al confessionario dove Lola stava facendo il bucato dei suoi peccati. Sull'anima mia non voglio mandarti a Roma per la penitenza!
Compare Alfio tornò colle sue mule, carico di soldoni, e portò in regalo alla moglie una bella veste nuova per le feste.
- Avete ragione di portarle dei regali, gli disse la vicina Santa, perché mentre voi siete via vostra moglie vi adorna la casa!
Compare Alfio era di quei carrettieri che portano il berretto sull'orecchio, e a sentir parlare in tal modo di sua moglie cambiò di colore come se l'avessero accoltellato. - Santo diavolone! esclamò, se non avete visto bene, non vi lascierò gli occhi per piangere! a voi e a tutto il vostro parentado!
- Non son usa a piangere! rispose Santa; non ho pianto nemmeno quando ho visto con questi occhi Turiddu della gnà Nunzia entrare di notte in casa di vostra moglie.
- Va bene, rispose compare Alfio, grazie tante.
Turiddu, adesso che era tornato il gatto, non bazzicava più di giorno per la stradicciuola, e smaltiva l'uggia all'osteria, cogli amici; e la vigilia di Pasqua avevano sul desco un piatto di salsiccia. Come entrò compare Alfio, soltanto dal modo in cui gli piantò gli occhi addosso, Turiddu comprese che era venuto per quell'affare e posò la forchetta sul piatto.
- Avete comandi da darmi, compare Alfio? gli disse.
- Nessuna preghiera, compare Turiddu, era un pezzo che non vi vedevo, e voleva parlarvi di quella cosa che sapete voi.
Turiddu da prima gli aveva presentato il bicchiere, ma compare Alfio lo scansò colla mano. Allora Turiddu si alzò e gli disse:
- Son qui, compar Alfio.
Il carrettiere gli buttò le braccia al collo.
- Se domattina volete venire nei fichidindia della Canziria potremo parlare di quell'affare, compare.
- Aspettatemi sullo stradone allo spuntar del sole, e ci andremo insieme.
Con queste parole si scambiarono il bacio della sfida. Turiddu strinse fra i denti l'orecchio del carrettiere, e così gli fece promessa solenne di non mancare.
Gli amici avevano lasciato la salciccia zitti zitti, e accompagnarono Turiddu sino a casa. La gnà Nunzia, poveretta, l'aspettava sin tardi ogni sera.
- Mamma, le disse Turiddu, vi rammentate quando sono andato soldato, che credevate non avessi a tornar più? Datemi un bel bacio come allora, perché domattina andrò lontano.
Prima di giorno si prese il suo coltello a molla, che aveva nascosto sotto il fieno quando era andato coscritto, e si mise in cammino pei fichidindia della Canziria.
- Oh! Gesummaria! dove andate con quella furia? piagnucolava Lola sgomenta, mentre suo marito stava per uscire.
- Vado qui vicino, rispose compar Alfio, ma per te sarebbe meglio che io non tornassi più.
Lola, in camicia, pregava ai piedi del letto e si stringeva sulle labbra il rosario che le aveva portato fra Bernardino dai Luoghi Santi, e recitava tutte le avemarie che potevano capirvi.
- Compare Alfio, cominciò Turiddu dopo che ebbe fatto un pezzo di strada accanto al suo compagno, il quale stava zitto, e col berretto sugli occhi. Come è vero Iddio so che ho torto e mi lascierei ammazzare. Ma prima di venir qui ho visto la mia vecchia che si era alzata per vedermi partire, col pretesto di governare il pollaio, quasi il cuore le parlasse, e quant'è vero Iddio vi ammazzerò come un cane per non far piangere la mia vecchierella.
- Così va bene, rispose compare Alfio, spogliandosi del farsetto, e picchieremo sodo tutte due.
Entrambi erano bravi tiratori; Turiddu toccò la prima botta, e fu a tempo a prenderla nel braccio; come la rese, la rese buona, e tirò all'anguinaia.
- Ah! compare Turiddu! avete proprio intenzione di ammazzarmi!
- Sì, ve l'ho detto; ora che ho visto la mia vecchia nel pollaio, mi pare di averla sempre dinanzi agli occhi.
- Apriteli bene, gli occhi! gli gridò compar Alfio, che sto per rendervi la buona misura.
Come egli stava in guardia tutto raccolto per tenersi la sinistra sulla ferita, che gli doleva, e quasi strisciava per terra col gomito, acchiappò rapidamente una manata di polvere e la gettò negli occhi dell'avversario.
- Ah! urlò Turiddu accecato, son morto.
Ei cercava di salvarsi facendo salti disperati all'indietro; ma compar Alfio lo raggiunse con un'altra botta nello stomaco e una terza nella gola.
- E tre! questa è per la casa che tu m'hai adornato. Ora tua madre lascierà stare le galline.
Turiddu annaspò un pezzo di qua e di là fra i fichidindia e poi cadde come un masso. Il sangue gli gorgogliava spumeggiando nella gola, e non poté profferire nemmeno: - Ah! mamma mia!



LA LUPA


Era alta, magra; aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna e pure non era più giovane; era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano.
Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai - di nulla. Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una cagnaccia, con quell'andare randagio e sospettoso della lupa affamata; ella si spolpava i loro figliuoli e i loro mariti in un batter d'occhio, con le sue labbra rosse, e se li tirava dietro alla gonnella solamente a guardarli con quegli occhi da satanasso, fossero stati davanti all'altare di Santa Agrippina. Per fortuna la Lupa non veniva mai in chiesa né a Pasqua, né a Natale, né per ascoltar messa, né per confessarsi. - Padre Angiolino di Santa Maria di Gesù, un vero servo di Dio, aveva persa l'anima per lei.
Maricchia, poveretta, buona e brava ragazza, piangeva di nascosto, perché era figlia della Lupa, e nessuno l'avrebbe tolta in moglie, sebbene ci avesse la sua bella roba nel cassettone, e la sua buona terra al sole, come ogni altra ragazza del villaggio.
Una volta la Lupa si innamorò di un bel ragazzo che era tornato da soldato, e mieteva il fieno con lei nelle chiuse del notaro, ma proprio quello che si dice innamorarsi, sentirsene ardere le carni sotto al fustagno del corpetto, e provare, fissandolo negli occhi, la sete che si ha nelle ore calde di giugno, in fondo alla pianura. Ma colui seguitava a mietere tranquillamente col naso sui manipoli, e le diceva: - O che avete, gnà Pina? Nei campi immensi, dove scoppiettava soltanto il volo dei grilli, quando il sole batteva a piombo, la Lupa affastellava manipoli su manipoli, e covoni su covoni, senza stancarsi mai, senza rizzarsi un momento sulla vita, senza accostare le labbra al fiasco, pur di stare sempre alle calcagna di Nanni, che mieteva e mieteva, e le domandava di quando in quando: - Che volete, gnà Pina?
Una sera ella glielo disse, mentre gli uomini sonnecchiavano nell'aia, stanchi della lunga giornata, ed i cani uggiolavano per la vasta campagna nera: - Te voglio! Te che sei bello come il sole, e dolce come il miele. Voglio te!
- Ed io invece voglio vostra figlia, che è zitella, rispose Nanni ridendo.
La Lupa si cacciò le mani nei capelli, grattandosi le tempie senza dir parola, e se ne andò, né più comparve nell'aia. Ma in ottobre rivide Nanni, al tempo che cavavano l'olio, perché egli lavorava accanto alla sua casa, e lo scricchiolìo del torchio non la faceva dormire tutta notte.
- Prendi il sacco delle ulive, disse alla figliuola, e vieni con me.
Nanni spingeva colla pala le ulive sotto la macina, e gridava ohi! alla mula perché non si arrestasse. - La vuoi mia figlia Maricchia? gli domandò la gnà Pina. - Cosa gli date a vostra figlia Maricchia? rispose Nanni. - Essa ha la roba di suo padre, e dippiù io le dò la mia casa; a me mi basterà che mi lasciate un cantuccio nella cucina, per stendervi un po' di pagliericcio. - Se è così se ne può parlare a Natale, disse Nanni. - Nanni era tutto unto e sudicio dell'olio e delle ulive messe a fermentare, e Maricchia non lo voleva a nessun patto; ma sua madre l'afferrò pe' capelli, davanti al focolare, e le disse co' denti stretti: - Se non lo pigli ti ammazzo!
La Lupa era quasi malata, e la gente andava dicendo che il diavolo quando invecchia si fa eremita. Non andava più in qua e in là; non si metteva più sull'uscio, con quegli occhi da spiritata. Suo genero, quando ella glieli piantava in faccia quegli occhi, si metteva a ridere, e cavava fuori l'abitino della Madonna per segnarsi. Maricchia stava in casa ad allattare i figliuoli, e sua madre andava nei campi, a lavorare cogli uomini, proprio come un uomo, a sarchiare, a zappare, a governare le bestie, a potare le viti, fosse stato greco e levante di gennaio, oppure scirocco di agosto, allorquando i muli lasciavano cader la testa penzoloni, e gli uomini dormivano bocconi a ridosso del muro a tramontana. In quell'ora fra vespero e nona, in cui non ne va in volta femmina buona, la gnà Pina era la sola anima viva che si vedesse errare per la campagna, sui sassi infuocati delle viottole, fra le stoppie riarse dei campi immensi, che si perdevano nell'afa, lontan lontano, verso l'Etna nebbioso, dove il cielo si aggravava sull'orizzonte.
- Svegliati! disse la Lupa a Nanni che dormiva nel fosso, accanto alla siepe polverosa, col capo fra le braccia. Svegliati, ché ti ho portato il vino per rinfrescarti la gola.
Nanni spalancò gli occhi imbambolati, fra veglia e sonno, trovandosela dinanzi ritta, pallida, col petto prepotente, e gli occhi neri come il carbone, e stese brancolando le mani.
- No! non ne va in volta femmina buona nell'ora fra vespero e nona! singhiozzava Nanni, ricacciando la faccia contro l'erba secca del fossato, in fondo in fondo, colle unghie nei capelli. - Andatevene! Andatevene! non ci venite più nell'aia!
Ella se ne andava infatti, la Lupa, riannodando le trecce superbe, guardando fisso dinanzi ai suoi passi nelle stoppie calde, cogli occhi neri come il carbone.
Ma nell'aia ci tornò delle altre volte, e Nanni non le disse nulla; e quando tardava a venire, nell'ora fra vespero e nona, egli andava ad aspettarla in cima alla viottola bianca e deserta, col sudore sulla fronte; - e dopo si cacciava le mani nei capelli, e le ripeteva ogni volta: Andatevene! andatevene! Non ci tornate più nell'aia! - Maricchia piangeva notte e giorno, e alla madre le piantava in faccia gli occhi ardenti di lagrime e di gelosia, come una lupacchiotta anch'essa, quando la vedeva tornare da' campi pallida e muta ogni volta. - Scellerata! le diceva. Mamma scellerata!
- Taci!
- Ladra! ladra!
- Taci!
- Andrò dal brigadiere, andrò!
- Vacci!
E ci andò davvero, coi figli in collo, senza temere di nulla, e senza versare una lagrima, come una pazza, perché adesso l'amava anche lei quel marito che le avevano dato per forza, unto e sudicio dalle ulive messe a fermentare.
Il brigadiere fece chiamare Nanni, e lo minacciò della galera, e della forca. Nanni si diede a singhiozzare ed a strapparsi i capelli; non negò nulla, non tentò scolparsi. - È la tentazione! diceva; è la tentazione dell'inferno! si buttò ai piedi del brigadiere supplicandolo di mandarlo in galera.
- Per carità, signor brigadiere, levatemi da questo inferno! fatemi ammazzare, mandatemi in prigione; non me la lasciate veder più, mai! mai!
- No! rispose però la Lupa al brigadiere. Io mi son riserbato un cantuccio della cucina per dormirvi, quando gli ho data la mia casa in dote. La casa è mia. Non voglio andarmene!
Poco dopo, Nanni s'ebbe nel petto un calcio dal mulo e fu per morire; ma il parroco ricusò di portargli il Signore se la Lupa non usciva di casa. La Lupa se ne andò, e suo genero allora si poté preparare ad andarsene anche lui da buon cristiano; si confessò e comunicò con tali segni di pentimento e di contrizione che tutti i vicini e i curiosi piangevano davanti al letto del moribondo. E meglio sarebbe stato per lui che fosse morto in quel tempo, prima che il diavolo tornasse a tentarlo e a ficcarglisi nell'anima e nel corpo quando fu guarito. - Lasciatemi stare! diceva alla Lupa; per carità, lasciatemi in pace! Io ho visto la morte cogli occhi! La povera Maricchia non fa che disperarsi. Ora tutto il paese lo sa! Quando non vi vedo è meglio per voi e per me...
Ed avrebbe voluto strapparsi gli occhi per non vedere quelli della Lupa, che quando gli si ficcavano ne' suoi gli facevano perdere l'anima ed il corpo. Non sapeva più che fare per svincolarsi dall'incantesimo. Pagò delle messe alle anime del Purgatorio e andò a chiedere aiuto al parroco e al brigadiere. A Pasqua andò a confessarsi, e fece pubblicamente sei palmi di lingua a strasciconi sui ciottoli del sacrato innanzi alla chiesa, in penitenza, e poi, come la Lupa tornava a tentarlo:
- Sentite! le disse, non ci venite più nell'aia, perché se tornate a cercarmi, com'è vero Iddio, vi ammazzo!
- Ammazzami, rispose la Lupa, ché non me ne importa; ma senza di te non voglio starci.
Ei come la scorse da lontano, in mezzo a' seminati verdi, lasciò di zappare la vigna, e andò a staccare la scure dall'olmo. La Lupa lo vide venire, pallido e stralunato, colla scure che luccicava al sole, e non si arretrò di un sol passo, non chinò gli occhi, seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli di papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi neri. - Ah! malanno all'anima vostra! balbettò Nanni.



L'AMANTE DI GRAMIGNA


Caro Farina, eccoti non un racconto ma l'abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di esser brevissimo, e di esser storico - un documento umano, come dicono oggi; interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeterò così come l'ho raccolto pei viottoli dei campi, press'a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l'efficacia dell'essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne; il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditorî, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che dicesi l'argomento di un racconto, e che l'analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi ti dirò soltanto il punto di partenza e quello d'arrivo, e per te basterà, e un giorno forse basterà per tutti.
Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più intimo; sacrifichiamo volentieri l'effetto della catastrofe, del risultato psicologico, intravvisto con intuizione quasi divina dai grandi artisti del passato, allo sviluppo logico, necessario di esso, ridotto meno imprevisto, meno drammatico, ma non meno fatale; siamo più modesti, se non più umili; ma le conquiste che facciamo delle verità psicologiche non saranno un fatto meno utile all'arte dell'avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell'uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le risorse dell'immaginazione che nell'avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi?
Intanto io credo che il trionfo del romanzo, la più completa e la più umana delle opere d'arte, si raggiungerà allorché l'affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane; e che l'armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell'artista rimarrà assolutamente invisibile, e il romanzo avrà l'impronta dell'avvenimento reale, e l'opera d'arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore; che essa non serbi nelle sue forme viventi alcuna impronta della mente in cui germogliò, alcuna ombra dell'occhio che la intravvide, alcuna traccia delle labbra che ne mormorarono le prime parole come il fiat creatore; ch'essa stia per ragion propria, pel solo fatto che è come dev'essere, ed è necessario che sia, palpitante di vita ed immutabile al pari di una statua di bronzo, di cui l'autore abbia avuto il coraggio divino di eclissarsi e sparire nella sua opera immortale.
Parecchi anni or sono, laggiù lungo il Simeto, davano la caccia a un brigante, certo Gramigna, se non erro, un nome maledetto come l'erba che lo porta, il quale da un capo all'altro della provincia s'era lasciato dietro il terrore della sua fama. Carabinieri, soldati, e militi a cavallo lo inseguivano da due mesi, senza esser riesciti a mettergli le unghie addosso: era solo, ma valeva per dieci, e la mala pianta minacciava di abbarbicare. Per giunta si approssimava il tempo della messe, il fieno era già steso pei campi, le spighe chinavano il capo e dicevano di sì ai mietitori che avevano già la falce in pugno, e nonostante nessun proprietario osava affacciare il naso al disopra della siepe del suo podere, per timore di incontrarvi Gramigna che se ne stesse sdraiato fra i solchi, colla carabina fra le gambe, pronto a far saltare il capo al primo che venisse a guardare nei fatti suoi. Sicché le lagnanze erano generali. Allora il prefetto si fece chiamare tutti quei signori della questura, dei carabinieri, e dei compagni d'armi, e disse loro due paroline di quelle che fanno drizzar le orecchie. Il giorno dopo un terremoto per ogni dove; pattuglie, squadriglie, vedette per ogni fossato, e dietro ogni muricciolo; se lo cacciavano dinanzi come una mala bestia per tutta una provincia, di giorno, di notte, a piedi, a cavallo, col telegrafo. Gramigna sgusciava loro di mano, e rispondeva a schioppettate se gli camminavano un po' troppo sulle calcagna. Nelle campagne, nei villaggi, per le fattorie, sotto le frasche delle osterie, nei luoghi di ritrovo, non si parlava d'altro che di lui, di Gramigna, di quella caccia accanita, di quella fuga disperata; i cavalli dei carabinieri cascavano stanchi morti; i compagni d'armi si buttavano rifiniti per terra in tutte le stalle, le pattuglie dormivano all'impiedi; egli solo, Gramigna, non era stanco mai, non dormiva mai, fuggiva sempre, s'arrampicava sui precipizi, strisciava fra le messi, correva carponi nel folto dei fichidindia, sgattajolava come un lupo nel letto asciutto dei torrenti. Il principale argomento di ogni discorso, nei crocchi, davanti agli usci del villaggio, era la sete divorante che doveva soffrire il perseguitato, nella pianura immensa, arsa, sotto il sole di giugno. I fannulloni spalancavano gli occhi.
Peppa, una delle più belle ragazze di Licodia, doveva sposare in quel tempo compare Finu « candela di sego » che aveva terre al sole e una mula baia in stalla, ed era un giovanotto grande e bello come il sole, che portava lo stendardo di Santa Margherita come fosse un pilastro, senza piegare le reni.
La madre di Peppa piangeva dalla contentezza per la gran fortuna toccata alla figliuola, e passava il tempo a voltare e rivoltare nel baule il corredo della sposa, « tutto di roba bianca a quattro » come quella di una regina, e orecchini che le arrivavano alle spalle, e anelli d'oro per le dieci dita delle mani; dell'oro ne aveva quanto ne poteva avere Santa Margherita, e dovevano sposarsi giusto per santa Margherita, che cadeva in giugno, dopo la mietitura del fieno. « Candela di sego » nel tornare ogni sera dalla campagna, lasciava la mula all'uscio della Peppa, e veniva a dirle che i seminati erano un incanto, se Gramigna non vi appiccava il fuoco, e il graticcio di contro al letto non sarebbe bastato a contenere tutto il grano della raccolta, che gli pareva mill'anni di condursi la sposa in casa, in groppa alla mula baia. Ma Peppa un bel giorno gli disse: - La vostra mula lasciatela stare, perché non voglio maritarmi.
Il povero « candela di sego » rimase sbalordito e la vecchia si mise a strapparsi i capelli come udì che sua figlia rifiutava il miglior partito del villaggio. - Io voglio bene a Gramigna, le disse la ragazza, e non voglio sposare altri che lui!
- Ah! gridava la mamma per la casa, coi capelli grigi al vento, che pareva una strega. - Ah! quel demonio è venuto sin qui a stregarmi la mia figliuola!
- No! rispondeva Peppa coll'occhio fisso che pareva d'acciajo. - No, non è venuto qui.
- Dove l'hai visto dunque?
- Io non l'ho visto. Ne ho sentito parlare. Sentite! ma lo sento qui, che mi brucia!
In paese la cosa fece rumore, per quanto la tenessero nascosta. Le comari che avevano invidiato a Peppa il seminato prosperoso, la mula baia, e il bel giovanotto che portava lo stendardo di Santa Margherita senza piegar le reni, andavano dicendo ogni sorta di brutte storie, che Gramigna veniva a trovarla di notte nella cucina, e che glielo avevano visto nascosto sotto il letto. La povera madre aveva acceso una lampada alle anime del purgatorio, e persino il curato era andato in casa di Peppa, a toccarle il cuore colla stola, onde scacciare quel diavolo di Gramigna che ne aveva preso possesso. Però ella seguitava a dire che non lo conosceva neanche di vista quel cristiano; ma che la notte lo vedeva in sogno, e alla mattina si levava colle labbra arse quasi avesse provato anch'essa tutta la sete ch'ei doveva soffrire.
Allora la vecchia la chiuse in casa, perché non sentisse più parlare di Gramigna; e tappò tutte le fessure dell'uscio con immagini di santi. Peppa ascoltava quello che dicevano nella strada dietro le immagini benedette, e si faceva pallida e rossa, come se il diavolo le soffiasse tutto l'inferno nella faccia.
Finalmente sentì dire che avevano scovato Gramigna nei fichidindia di Palagonia. - Ha fatto due ore di fuoco! dicevano, c'è un carabiniere morto, e più di tre compagni d'armi feriti. Ma gli hanno tirato addosso tal gragnuola di fucilate che stavolta hanno trovato un lago di sangue dove egli si trovava.
Allora Peppa si fece la croce dinanzi al capezzale della vecchia, e fuggì dalla finestra.
Gramigna era nei fichidindia di Palagonia, che non avevano potuto scovarlo in quel forteto da conigli, lacero, insanguinato, pallido per due giorni di fame, arso dalla febbre, e colla carabina spianata: come la vide venire, risoluta, in mezzo alle macchie dei fichidindia, nel fosco chiarore dell'alba, ci pensò un momento, se dovesse lasciare partire il colpo. - Che vuoi? le chiese. Che vieni a far qui?
- Vengo a star con te; gli disse lei guardandolo fisso. Sei tu Gramigna?
- Sì, son io Gramigna. Se vieni a buscarti quelle venti oncie della taglia, hai sbagliato il conto.
- No, vengo a star con te! rispose lei.
- Vattene! diss'egli. Con me non puoi starci, ed io non voglio nessuno con me! Se vieni a cercar denaro hai sbagliato il conto ti dico, io non ho nulla, guarda! Sono due giorni che non ho nemmeno un pezzo di pane.
- Adesso non posso più tornare a casa, disse lei; la strada è tutta piena di soldati.
- Vattene! cosa m'importa? ciascuno per la sua pelle!
Mentre ella voltava le spalle, come un cane scacciato a pedate, Gramigna la chiamò. - Senti, va' a prendermi un fiasco d'acqua, laggiù nel torrente, se vuoi stare con me bisogna rischiar la pelle.
Peppa andò senza dir nulla, e quando Gramigna udì la fucilata si mise a sghignazzare, e disse fra sé: - Questa era per me. - Ma come la vide comparire poco dopo, col fiasco al braccio, pallida e insanguinata, prima le si buttò addosso, per strapparle il fiasco, e poi quando ebbe bevuto che pareva il fiato le mancasse le chiese - L'hai scappata? Come hai fatto?
- I soldati erano sull'altra riva, e c'era una macchia folta da questa parte.
- Però t'hanno bucata la pelle. Hai del sangue nelle vesti?
- Sì.
- Dove sei ferita?
- Sulla spalla.
- Non fa nulla. Potrai camminare.
Così le permise di stare con lui. Ella lo seguiva tutta lacera, colla febbre della ferita, senza scarpe, e andava a cercargli un fiasco d'acqua o un tozzo di pane, e quando tornava colle mani vuote, in mezzo alle fucilate, il suo amante, divorato dalla fame e dalla sete, la batteva. Finalmente una notte in cui brillava la luna nei fichidindia, Gramigna le disse - Vengono! e la fece adossare alla rupe, in fondo al crepaccio, poi fuggì dall'altra parte. Fra le macchie si udivano spesseggiare le fucilate, e l'ombra avvampava qua e là di brevi fiamme. Ad un tratto Peppa udì un calpestìo vicino a sé e vide tornar Gramigna che si strascinava con una gamba rotta, e si appoggiava ai ceppi dei fichidindia per ricaricare la carabina. - È finita! gli disse lui. Ora mi prendono; - e quello che le agghiacciò il sangue più di ogni cosa fu il luccicare che ci aveva negli occhi, da sembrare un pazzo. Poi quando cadde sui rami secchi come un fascio di legna, i compagni d'armi gli furono addosso tutti in una volta.
Il giorno dopo lo strascinarono per le vie del villaggio, su di un carro, tutto lacero e sanguinoso. La gente che si accalcava per vederlo, si metteva a ridere trovandolo così piccolo, pallido e brutto, che pareva un pulcinella. Era per lui che Peppa aveva lasciato compare Finu « candela di sego »! Il povero « candela di sego » andò a nascondersi quasi toccasse a lui di vergognarsi, e Peppa la condussero fra i soldati, ammanettata, come una ladra anche lei, lei che ci aveva dell'oro quanto Santa Margherita! La povera madre di Peppa dovette vendere « tutta la roba bianca » del corredo, e gli orecchini d'oro, e gli anelli per le dieci dita, onde pagare gli avvocati di sua figlia, e tirarsela di nuovo in casa, povera, malata, svergognata, brutta anche lei come Gramigna, e col figlio di Gramigna in collo. Ma quando gliela diedero, alla fine del processo, recitò l'avemaria, nella casermeria nuda e già scura, in mezzo ai carabinieri; le parve che le dessero un tesoro, alla povera vecchia, che non possedeva più nulla e piangeva come una fontana dalla consolazione. Peppa invece sembrava che non ne avesse più di lagrime, e non diceva nulla, né in paese nessuno la vide più mai, nonostante che le due donne andassero a buscarsi il pane colle loro braccia. La gente diceva che Peppa aveva imparato il mestiere, nel bosco, e andava di notte a rubare. Il fatto era che stava rincantucciata nella cucina come una bestia feroce, e ne uscì soltanto allorché la sua vecchia fu morta di stenti, e dovette vendere la casa.
- Vedete! le diceva « candela di sego » che pure le voleva sempre bene. - Vi schiaccierei la testa fra due sassi pel male che avete fatto a voi e agli altri.
- È vero! rispondeva Peppa, lo so! Questa è stata la volontà di Dio.
Dopo che fu venduta la casa e quei pochi arnesi che le restavano se ne andò via dal paese, di notte come era venuta, senza voltarsi indietro a guardare il tetto sotto cui aveva dormito tanto tempo, e se ne andò a fare la volontà di Dio in città, col suo ragazzo, vicino al carcere dove era rinchiuso Gramigna. Ella non vedeva altro che le gelosie tetre, sulla gran facciata muta, e le sentinelle la scacciavano se si fermava a cercare cogli occhi dove potesse esser lui. Finalmente le dissero che egli non ci era più da un pezzo, che l'avevano condotto via, di là del mare, ammanettato e colla sporta al collo. Ella non disse nulla. Non si mosse più di là, perché non sapeva dove andare, e non l'aspettava più nessuno. Vivacchiava facendo dei servizii ai soldati, ai carcerieri, come facesse parte ella stessa di quel gran fabbricato tetro e silenzioso, e pei carabinieri poi che le avevano preso Gramigna nel folto dei fichidindia, e gli avevano rotto la gamba a fucilate, sentiva una specie di tenerezza rispettosa, come l'ammirazione bruta della forza. La festa, quando li vedeva col pennacchio, e gli spallini lucenti, rigidi ed impettiti nell'uniforme di gala, se li mangiava cogli occhi, ed era sempre per la caserma spazzando i cameroni e lustrando gli stivali, tanto che la chiamavano « lo strofinacciolo dei carabinieri ». Soltanto allorché li vedeva caricare le armi a notte fatta, e partire a due a due, coi calzoni rimboccati, il revolver sullo stomaco, o quando montavano a cavallo, sotto il lampione che faceva luccicare la carabina, e udiva perdersi nelle tenebre lo scalpito dei cavalli, e il tintinnìo della sciabola, diventava pallida ogni volta, e mentre chiudeva la porta della stalla rabbrividiva; e quando il suo marmocchio giocherellava cogli altri monelli nella spianata davanti al carcere, correndo fra le gambe dei soldati, e i monelli gli dicevano « il figlio di Gramigna, il figlio di Gramigna! » ella si metteva in collera, e li inseguiva a sassate.



GUERRA DI SANTI


Tutt'a un tratto, mentre San Rocco se ne andava tranquillamente per la sua strada, sotto il baldacchino, coi cani al guinzaglio, e un gran numero di ceri accesi tutt'intorno, e la banda, la processione, la calca dei devoti, accadde un parapiglia, un fuggi fuggi, un casa del diavolo: preti che scappavano colle sottane per aria, trombe e clarinetti sulla faccia, donne che strillavano, il sangue a rigagnoli, e le legnate che piovevano come pere fradicie fin sotto il naso di San Rocco benedetto. Accorsero il pretore, il sindaco, i carabinieri; le ossa rotte furono portate all'ospedale, i più riottosi andarono a dormire in prigione, il santo tornò in chiesa a corsa piuttosto che a passo di processione, e la festa finì come le commedie di Pulcinella.
Tutto ciò per l'invidia di que' del quartiere di San Pasquale. Quell'anno i devoti di San Rocco avevano speso gli occhi della testa per far le cose in grande; era venuta la banda dalla città, si erano sparati più di duemila mortaretti, e c'era persino uno stendardo nuovo, tutto ricamato d'oro, che pesava più d'un quintale, dicevano, e in mezzo alla folla sembrava « una spuma d'oro » addirittura. La qual cosa doveva fare maledettamente il solletico a quei di San Pasquale, sicché uno di costoro alla fine perse la pazienza, e si diede a urlare, pallido come un morto: - Viva San Pasquale! - Allora s'erano messe le legnate.
Poiché andare a dire viva San Pasquale sul mostaccio di San Rocco in persona è una provocazione bella e buona; è come venirvi a sputare in casa, o come uno che si diverta a dar dei pizzicotti alla donna che avete sotto il braccio. In tal caso non c'è più né cristi né diavoli, e si mette sotto i piedi quel po' di rispetto che si ha anche per gli altri santi, che infine fra di loro son tutti parenti. Se si è in chiesa, vanno in aria le panche, nelle processioni piovono pezzi di torcetti come pipistrelli, e a tavola volano le scodelle.
- Santo diavolone! - urlava compare Nino, tutto pesto e malconcio. - Voglio un po' vedere chi gli basta l'anima di gridare ancora viva San Pasquale!
- Io! - rispose furibondo Turi il « conciapelli » il quale doveva essergli cognato, ed era fuori di sé per un pugno acchiappato nella mischia, che lo aveva mezzo accecato. - Viva San Pasquale sino alla morte!
- Per l'amor di Dio! per l'amor di Dio! - strillava sua sorella Saridda, cacciandosi tra il fratello ed il fidanzato, ché tutti e tre erano andati a spasso d'amore e d'accordo sino a quel momento.
Compare Nino, il fidanzato, vociava per ischerno: - Viva i miei stivali! viva san stivale!
- Te'! - urlò Turi colla spuma alla bocca, e l'occhio gonfio e livido al pari d'una petronciana. - Te' per San Rocco, tu dei stivali! Prendi!
Così si scambiarono dei pugni che avrebbero accoppato un bue, sino a quando gli amici riuscirono a separarli a furia di busse e di pedate. Saridda scaldatasi anche lei, strillava viva San Pasquale, che per poco non si presero a ceffoni collo sposo, come fossero già stati marito e moglie.
In tali occasioni si accapigliano i genitori coi figliuoli, e le mogli si separano dai mariti, se per disgrazia una del quartiere di San Pasquale ha sposato uno di San Rocco.
- Non voglio sentirne parlare più di quel cristiano! - sbraitava Saridda coi pugni sui fianchi, alle vicine che le domandavano come era andato all'aria il matrimonio. - Neanche se me lo danno vestito d'oro e d'argento, sentite!
- Per me Saridda può far la muffa! - diceva dal canto suo compare Nino, mentre gli lavavano all'osteria il viso tutto sporco di sangue. Una manica di pezzenti e di poltroni, in quel quartiere di conciapelli! Quando m'è saltato in testa d'andare a cercarmi colà l'innamorata dovevo essere ubbriaco.
- Giacché è così! - aveva conchiuso il sindaco - e non si può portare un santo in piazza senza legnate, che è una vera porcheria, non voglio più feste, né quarantore, e se mi mettono fuori un moccolo, che è un moccolo! li caccio tutti in prigione.
La faccenda poi s'era fatta grossa, perché il vescovo della diocesi aveva accordato il privilegio di portar la mozzetta ai preti di San Pasquale. Quelli di San Rocco, che avevano i preti senza mozzetta, erano andati sino a Roma, a fare il diavolo ai piedi del Santo Padre, coi documenti in mano, in carta bollata, e ogni cosa; ma tutto era stato inutile, giacché i loro avversari del quartiere basso, che ognuno se li rammentava senza scarpe ai piedi, s'erano arricchiti come porci, colla nuova industria della concia delle pelli, e a questo mondo si sa che la giustizia si compra e vende come l'anima di Giuda.
A San Pasquale aspettavano il delegato di monsignore, il quale era un uomo di proposito, che ci aveva due fibbie d'argento di mezza libbra l'una alle scarpe, chi l'aveva visto, e veniva a portare la mozzetta ai canonici; perciò avevano fatto venire anche loro la banda, per andare ad incontrare il delegato di monsignore tre miglia fuori del paese, e si diceva che la sera ci sarebbero stati i fuochi in piazza, con tanto di « Viva San Pasquale » a lettere di scatola.
Gli abitanti del quartiere alto erano quindi in gran fermento, e alcuni, più eccitati, mondavano certi randelli di pero o di ciriegio grossi come pertiche, e borbottavano:
- Se ci dev'esser la musica si ha da portar la battuta!
Il delegato del vescovo correva un gran pericolo di uscirne colle ossa rotte dalla sua entrata trionfale. Ma il reverendo, furbo, lasciò la banda ad aspettarlo fuor del paese, e a piedi, per le scorciatoie, se ne venne pian piano alla casa del parroco, dove fece riunire i caporioni dei due partiti.
Come quei galantuomini si trovarono faccia a faccia, dopo tanto tempo che litigavano, cominciarono a guardarsi nel bianco degli occhi, quasi sentissero una gran voglia di strapparseli a vicenda, e ci volle tutta l'autorità del reverendo, il quale s'era messo per la circostanza il ferraiuolo di panno nuovo, per far servire i gelati e gli altri rinfreschi senza inconvenienti.
- Così va bene! - approvava il sindaco col naso nel bicchiere - quando mi volete per la pace, mi ci trovate sempre.
Il delegato disse infatti ch'egli era venuto per la conciliazione, col ramoscello d'ulivo in bocca, come la colomba di Noè, e facendo il fervorino andava distribuendo sorrisi e strette di mano, e andava dicendo: - Loro signori favoriranno in sagrestia, a prendere la cioccolata, il dì della festa.
- Lasciamo stare la festa, disse il vice-pretore, se no nasceranno degli altri guai.
- I guai nasceranno se si fanno di queste prepotenze, che uno non è più padrone di spassarsela come vuole, spendendo i suoi denari! - esclamò Bruno il carradore.
- Io me ne lavo le mani. Gli ordini del governo sono precisi. Se fate la festa mando a chiamare i carabinieri. Io voglio l'ordine.
- Dell'ordine rispondo io! sentenziò il sindaco, picchiando in terra coll'ombrella, e girando lo sguardo intorno.
- Bravo! come se non si sapesse che chi vi tira i mantici in consiglio è vostro cognato Bruno! - ripicchiò il vice-pretore.
- E voi fate l'opposizione per la picca di quella contravvenzione del bucato che non potete mandar giù!
- Signori miei! signori miei! - andava raccomandando il delegato. - Così non facciamo nulla!
- Faremo la rivoluzione, faremo! - urlava Bruno colle mani in aria.
Per fortuna il parroco aveva messo in salvo, lesto lesto, le chicchere e i bicchieri, e il sagrestano era corso a rompicollo a licenziare la banda, che, saputo l'arrivo del delegato, accorreva a dargli il benvenuto, soffiando nei corni e nei clarinetti.
- Così non si fa nulla! borbottava il delegato, e gli seccava pure che le messi fossero già mature di là delle sue parti, mentre ei se ne stava a perdere il suo tempo con compare Bruno e col vice-pretore che volevano mangiarsi l'anima. - Cos'è questa storia della contravvenzione pel bucato?
- Le solite prepotenze. Ora non si può sciorinare un fazzoletto da naso alla finestra, che subito vi chiappano la multa. La moglie del vice-pretore, fidandosi che suo marito era in carica, - sinora un po' di riguardo c'era sempre stato per le autorità, - soleva asciugare sul terrazzino tutto il bucato della settimana, si sa... quel po' di grazia di Dio... Ma adesso colla nuova legge è peccato mortale, e son proibiti perfino i cani e le galline, e gli altri animali, con rispetto, che fino ad ora facevano la polizia nelle strade; e alla prima pioggia, Dio ce la mandi buona di non affogare tutti nel sudiciume. La verità vera poi è che Bruno l'assessore l'ha contro il vice-pretore, per certa sentenza che gli ha dato contro.
Il delegato, per conciliare gli animi, stava inchiodato nel confessionario come una civetta dalla mattina alla sera, e tutte le donne volevano essere confessate dal rappresentante del vescovo, il quale ci aveva l'assoluzione plenaria per ogni sorta di peccati, come se fosse stata la persona stessa di monsignore.
- Padre! - gli diceva Saridda col naso alla graticola del confessionario. - Compare Nino ogni domenica mi fa far peccati in chiesa.
- In che modo, figliuola mia?
- Quel cristiano doveva esser mio marito, prima che vi fossero queste chiacchiere in paese, ma ora che il matrimonio è rotto, si pianta vicino all'altar maggiore, per guardarmi e ridere coi suoi amici tutto il tempo della santa messa.
E come il reverendo cercava di toccare il cuore a compare Nino:
- È lei piuttosto che mi volta le spalle quando mi vede, quasi fossi un pezzente, - rispondeva il contadino.
Egli invece se la gnà Saridda passava dalla piazza la domenica, affettava di esser tutt'uno col brigadiere, o con qualche altro pezzo grosso, e non si accorgeva nemmeno di lei. Saridda era occupatissima a preparare lampioncini di carta colorata, e glieli schierava sul mostaccio, lungo il davanzale, col pretesto di metterli ad asciugare. Una volta che si trovarono insieme in un battesimo non si salutarono nemmeno, come se non si fossero mai visti, e anzi Saridda fece la civetta col compare che aveva battezzata la bambina.
- Compare da strapazzo! - sogghignava Nino. - Compare di bambina! Quando nasce una femmina si rompono persino i travicelli del tetto.
E Saridda, fingendo di parlare colla puerpera:
- Tutto il male non viene per nuocere. Alle volte, quando vi pare d'aver perso un tesoro, dovete ringraziar Dio e San Pasquale; ché prima di conoscere bene una persona bisogna mangiare sette salme di sale.
- Già le disgrazie bisogna pigliarle come vengono, e il peggio è guastarsi il sangue per cose che non ne valgono la pena. Morto un papa, se ne fa un altro.
- I bambini sono destinati come devono nascere, al pari dei matrimoni; perché è meglio sposare uno che vi voglia bene davvero e non lo faccia per secondo fine, anche se non abbia né roba, né chiuse, né mule, né nulla.
In piazza suonava il tamburo, quello della meta. - Il sindaco dice che vi sarà la festa - susurravano nella folla.
- Litigherò sino alla consumazione dei secoli! mi ridurrò povero e in camicia come il santo Giobbe, ma quelle cinque lire di multa non le pagherò! dovessi lasciarlo nel testamento!
- Sangue d'un cane! che festa vogliono fare se quest'anno morremo tutti di fame! - esclamava Nino.
Sin dal mese di marzo non pioveva una goccia d'acqua, e i seminati gialli, che scoppiettavano come l'esca « morivano di sete ». Bruno il carradore diceva invece che quando San Pasquale esciva in processione pioveva di certo. Ma che gliene importava della pioggia a lui se faceva il carradore, e a tutti gli altri conciapelli del suo partito?... Infatti portarono San Pasquale in processione a levante e a ponente, e l'affacciarono sul poggio, a benedir la campagna, in una giornata afosa di maggio, tutta nuvoli: una di quelle giornate in cui i contadini si strappano i capelli dinanzi ai campi « bruciati » e le spighe chinano il capo proprio come se morissero.
- San Pasquale maledetto! - gridava Nino sputando in aria, e correndo come un pazzo pel seminato. - M'avete rovinato, San Pasquale! non mi avete lasciato altro che la falce per segarmi il collo!
Nel quartiere alto era una desolazione, una di quelle annate lunghe in cui la fame comincia a giugno, e le donne stanno sugli usci, spettinate e senza far nulla, coll'occhio fisso. La gnà Saridda, all'udire che si vendeva in piazza la mula di compare Nino onde pagare il fitto della terra che non aveva dato nulla, si sentì sbollire la collera in un attimo, e mandò in fretta e in furia suo fratello Turi, con quei soldi che avevano da parte, per aiutarlo.
Nino era in un canto della piazza, cogli occhi astratti e le mani in tasca, mentre gli vendevano la mula tutta in fronzoli e colla cavezza nuova.
- Non voglio nulla, ei rispose torvo. - Le braccia mi restano ancora, se Dio vuole! Bel santo, quel San Pasquale, eh!
Turi gli voltò le spalle per non finirla brutta, e se ne andò. Ma la verità era che gli animi si trovavano esasperati, ora che San Pasquale l'avevano portato in processione a levante e a ponente con quel bel risultato. Il peggio era che molti del quartiere di San Rocco si erano lasciati indurre ad andare colla processione anche loro, picchiandosi come asini, e colla corona di spine in capo, per amor del seminato. Ora poi si sfogavano in improperi, tanto che il delegato di monsignore aveva dovuto battersela a piedi e senza banda com'era venuto.
Il vice-pretore, per prendersi una rivincita sul carradore, telegrafava che gli animi erano eccitati, e l'ordine pubblico compromesso; sicché un bel giorno si udì la notizia che nella notte erano arrivati i compagni d'arme, e ognuno poteva andare a vederli nello stallatico.
- Son venuti pel colera - dicevano però degli altri. - Laggiù nella città la gente muore come le mosche.
Lo speziale mise il catenaccio alla bottega, e il dottore scappò il primo perché non l'accoppassero.
- Non sarà nulla, - dicevano quei pochi rimasti in paese, che non erano potuti fuggire qua e là per la campagna. - San Rocco benedetto lo guarderà il suo paese, e il primo che va in giro di notte gli faremo la pelle.
E anche quelli del quartiere basso erano corsi a piedi scalzi nella chiesa di San Rocco. Però di lì a poco i morti cominciarono a spesseggiare come i goccioloni grossi che annunziano il temporale, e di questo dicevasi ch'era un maiale, e aveva voluto morire per fare una scorpacciata di fichidindia, e di quell'altro che era tornato da campagna a notte fatta. Insomma il colera era venuto bello e buono, malgrado la guardia, e in barba a San Rocco, nonostante che una vecchia in odore di santità avesse sognato che San Rocco in persona le diceva:
- Del colera non abbiate paura, che ci penso io, e non sono come quel disutilaccio di San Pasquale.
Nino e Turi non si erano più visti dopo l'affare della mula; ma appena il contadino intese dire che fratello e sorella erano malati tutti e due, corse alla loro casa, e trovò Saridda nera e contrafatta, in fondo alla stanzuccia, accanto a suo fratello, il quale stava meglio, lui, ma si strappava i capelli e non sapeva più che fare.
- Ah! San Rocco ladro! si mise a gemere Nino. - Questa non me l'aspettava! O gnà Saridda, che non mi conoscete più? Nino, quello di una volta?
La gnà Saridda lo guardava con certi occhi infossati che ci voleva la lanterna a trovarli, e Nino ci aveva due fontane ai suoi occhi. - Ah! San Rocco! diceva lui, questo tiro è più birbone di quello che mi ha fatto San Pasquale!
Però la Saridda guarì, e mentre stava sull'uscio, col capo avvolto nel fazzoletto, e gialla come la cera vergine, gli andava dicendo:
- San Rocco mi ha fatto il miracolo, e dovete venirci anche voi, a portargli la candela per la sua festa.
Nino, col cuore gonfio, diceva di sì col capo; ma intanto aveva preso il male anche lui, e stette per morire. Saridda allora si graffiava il viso, e diceva che voleva morire con lui, e si sarebbe tagliati i capelli e glieli avrebbe messi nel cataletto, ché nessuno l'avrebbe più vista in faccia finché era viva.
- No! no! - rispondeva Nino col viso disfatto. - I capelli torneranno a crescere; ma chi non ti vedrà più sarò io che sarò morto.
- Bel miracolo che ti ha fatto San Rocco! - gli diceva Turi per consolarlo.
E tutti e due, convalescenti, mentre si scaldavano al sole, colle spalle al muro e il viso lungo si gettavano in viso l'un l'altro San Rocco e San Pasquale.
Una volta passò Bruno il carradore, che tornava da campagna a colera finito, e disse:
- Vogliamo fare una gran festa, per ringraziare San Pasquale di averci salvati dal colera. D'ora innanzi non ci saranno più arruffapopoli, né oppositori, ora che è morto quel vice-pretore che ha lasciato la lite nel testamento.
- Sì, la festa per quelli che son morti! - sogghignò Nino.
- E tu che sei vivo per San Rocco forse?
- La volete finire, saltò su Saridda, che poi ci vorrà un altro colera per far la pace!



PENTOLACCIA


Giacché facciamo come se fossimo al cosmorama, quando c'è la festa nel paese, che si mette l'occhio al vetro, e si vedono passare ad uno ad uno Garibaldi e Vittorio Emanuele, adesso viene « Pentolaccia » ch'è un bello originale anche lui, e ci fa bella figura fra tanti matti che hanno avuto il giudizio nelle calcagna, e hanno fatto tutto il contrario di quel che suol fare un cristiano il quale voglia mangiarsi il suo pane in santa pace.
Ora se si ha a fare l'esame di coscienza a tutti coloro che hanno avuto il bel gusto di far parlare di sé, nell'aia, nell'ora delle chiacchiere, dopo colezione; e se si deve fare come fa il fattore il sabato sera che dice a questo: - Cosa ti viene per le tue giornate? - e a quell'altro: - Tu che hai fatto nella settimana? - non si può lasciar « Pentolaccia » senza dirgli il fatto suo, un brutto fatto in verità, ché gli avevano messo quel bel nomignolo per la brutta cosa che sapete.
Già si sa che la gelosia è un difetto che l'abbiamo tutti, chi più chi meno, e per questo i galletti si spennacchiano fra di loro prima ancora di mettere la cresta, e i muli sparano calci nella stalla. Ma quando uno non ha mai avuto questo vizio, e ha chinato sempre il capo in santa pace, che sant'Isidoro ce ne scampi, non si sa capire come abbia a infuriare tutt'a un tratto, al pari di un toro nel mese di luglio, e faccia cose da matto, come uno che non ci vegga più dagli occhi pel mal di denti; ché quelle cose lì sono appunto come i denti, che dànno un martoro da far perdere la ragione allorché spuntano, ma dopo non dànno più noia, e servono a masticare il pane; e lui ci masticava così bene che aveva messo pancia, come un galantuomo, e pareva un canonico; per questo la gente lo chiamava « Pentolaccia » perché ci aveva la pentola al fuoco tutti i giorni, ché gliela manteneva sua moglie Venera con don Liborio.
Egli aveva voluto sposare la Venera per forza, sebbene non ci avesse né re né regno, e anche lui dovesse far capitale sulle sue braccia per buscarsi il pane. Invano sua madre, poveretta, gli andava dicendo: - Lascia star la Venera, che non fa per te; porta la mantellina a mezza testa, e fa vedere il piede quando va per la strada. - I vecchi ne sanno più di noi, e bisogna ascoltarli pel nostro meglio.
Ma lui ci aveva sempre pel capo quella scarpetta e quegli occhi ladri che cercavano il marito fuori della mantellina; perciò se la prese senza volere udir altro, e la madre uscì di casa dopo trent'anni che c'era stata, perché suocera e nuora insieme ci stanno proprio come due mule selvaggie alla stessa mangiatoia. La nuora, con quel suo bocchino melato, tanto disse e tanto fece che la povera vecchia brontolona dovette lasciarle il campo libero, e andarsene a morire in un tugurio; e fra marito e moglie succedeva anche una quistione ogni volta che doveva pagarsi la mesata del tugurio. E allorché il figlio accorse trafelato, al sentire che alla vecchiarella le avevano portato il viatico, non poté ricevere la benedizione, né cavare l'ultima parola di bocca alla moribonda, la quale aveva già le labbra incollate dalla morte, e il viso disfatto, nell'angolo della casuccia dove cominciava a farsi scuro, e aveva vivi solamente gli occhi, coi quali pareva che volesse dirgli tante cose. - Eh?... Eh?...
Chi non rispetta i genitori fa il suo malanno e non fa buona fine.
La povera vecchia era morta col rammarico della mala riuscita che aveva fatto la moglie di suo figlio; e Dio le aveva accordato la grazia di andarsene da questo mondo, portandosi al mondo di là tutto quello che ci aveva nello stomaco contro la nuora, e che sapeva come gli avrebbe fatto piangere il cuore al figliuolo. Appena la nuora era rimasta padrona della casa, e colla briglia sul collo, ne aveva fatte tante e poi tante, che la gente ormai non chiamava altrimenti suo marito che con quel nomaccio, e quando arrivava a sentirlo anche lui, e si avventurava a lagnarsene colla moglie - Tu che ci credi? gli diceva lei: ed egli non ci credeva, contento come una pasqua.
Era fatto così poveretto, e sin qui non faceva male a nessuno. Se gliel'avessero fatta vedere coi suoi occhi, avrebbe detto che non era vero. O fosse che per la maledizione della madre la Venera gli era cascata dal cuore, e non ci pensasse più; o perché standosene tutto l'anno in campagna a lavorare, e non vedendola altro che il sabato sera, ella si era fatta sgarbata e disamorevole col marito, ed egli avesse finito di volergli bene; e quando una cosa non ci piace più, ci sembra che non debba premere nemmeno agli altri, e non ce ne importa più nulla che sia di questo o di quell'altro; insomma la gelosia non poteva entrargli in testa neanche a ficcarcela col cavicchio, e avrebbe continuato per cent'anni ad andare lui stesso, quando ce lo mandava sua moglie, a chiamare il medico, il quale era don Liborio.
Don Liborio era anche suo socio, tenevano una chiusa a mezzeria; ci avevano una trentina di pecore in comune; prendevano insieme dei pascoli in affitto, e don Liborio dava la sua parola in garenzia, quando si andava dinanzi al notaio. « Pentolaccia » gli portava le prime fave e i primi piselli, gli spaccava la legna per la cucina, gli pigiava l'uva nel palmento; a lui in cambio non gli mancava nulla, né il grano nel graticcio, né il vino nella botte, né l'olio nell'orciuolo; sua moglie bianca e rossa come una mela, sfoggiava scarpe nuove e fazzoletti di seta; don Liborio non si faceva pagar le sue visite, e gli aveva battezzato anche un bambino. Insomma facevano una casa sola, ed ei chiamava don Liborio « signor compare » e lavorava con coscienza - su tal riguardo « Pentolaccia » non gli si poteva dire - a far prosperare la società col « signor compare » il quale perciò ci aveva il suo vantaggio anche lui, e così erano contenti tutti, ché alle volte il diavolo non è brutto come si dipinge.
Ora avvenne che questa pace degli angeli si mutò in una casa del diavolo tutt'a un tratto in un giorno solo, in un momento, come gli altri contadini che lavoravano nel maggese, mentre chiacchieravano all'ombra, nell'ora di vespero, vennero per caso a leggergli la vita, a lui e a sua moglie, senza accorgersi che « Pentolaccia » s'era buttato a dormire dietro la siepe, e nessuno l'aveva visto, che per questo si suol dire « quando mangi chiudi l'uscio, e quando parli guardati d'attorno ».
Stavolta parve proprio che il diavolo andasse a stuzzicare « Pentolaccia » il quale dormiva, e gli soffiasse nell'orecchio gl'improperii che dicevano di lui, e glieli ficcasse nell'anima con un chiodo. - E quel becco di « Pentolaccia! » dicevano, che si rosica mezzo don Liborio! e ci mangia e ci beve nel brago, e c'ingrassa come un maiale!
Allora egli si rizzò come se l'avesse morso un cane arrabbiato, e si diede a correre verso il paese senza vederci più dagli occhi, che fin l'erba e i sassi gli sembravano rossi al pari del sangue. Sulla porta di casa sua incontrò don Liborio, il quale se ne andava tranquillamente, facendosi vento col cappello di paglia. - Sentite, « signor compare », gli disse lui; se vi vedo un'altra volta in casa mia, com'è vero Dio! vi faccio la festa!
Don Liborio lo guardò negli occhi, quasi parlasse turco, e gli parve che gli avesse dato volta al cervello, con quel caldo, perché davvero non si poteva immaginare che a « Pentolaccia » saltasse in mente da un momento all'altro di esser geloso, dopo tanto tempo che aveva chiuso gli occhi, ed era la miglior pasta d'uomo e di marito che fosse al mondo.
- Cosa avete oggi, compare? gli disse.
- Ho, che se vi vedo un'altra volta in casa mia, com'è vero Dio, vi faccio la festa.
Don Liborio si strinse nelle spalle e se ne andò ridendo. Lui entrò in casa tutto stralunato, e ripeté alla moglie: - Se vedo qui un'altra volta « il signor compare » com'è vero Dio, gli faccio la festa!
Venera si cacciò i pugni sui fianchi, e cominciò a sgridarlo e a dirgli degli improperi. Ei si ostinava a dire sempre di sì col capo, addossato alla parete, come un bue che ha la mosca, e non vuol sentir ragione. I bambini strillavano al veder quelle cose insolite. La moglie infine prese la stanga, e lo cacciò fuori dell'uscio per levarselo dinanzi, e gli disse che in casa sua era padrona di fare quello che le pareva e piaceva.
« Pentolaccia » non poteva più lavorare nel maggese, pensava sempre a una cosa, ed aveva una faccia di basilisco che nessuno gli conosceva. Prima d'imbrunire, ed era sabato, piantò la zappa nel solco, e se ne andò senza farsi saldare il conto della settimana. Sua moglie, vedendoselo arrivare senza denari, e per giunta due ore prima del consueto, tornò di nuovo a strapazzarlo, e voleva mandarlo in piazza, a comprarle delle acciughe salate, che si sentiva una spina nella gola. Ma ei non volle andarsene dalla cucina, tenendosi la bambina fra le gambe, la quale, poveretta, non osava muoversi, e piagnuccolava, per la paura che il babbo le faceva con quella faccia. Venera quella sera aveva un diavolo per capello, e la gallina nera, appollaiata sulla scala, non finiva di chiocciare, come quando deve accadere una disgrazia.
Don Liborio soleva venire dopo le sue visite, prima d'andare al caffè, a far la sua partita di tresette; e quella sera Venera diceva che voleva farsi tastare il polso, perché tutto il giorno si era sentita la febbre, per quel male che ci aveva nella gola. « Pentolaccia » lui, stava zitto, e non si muoveva dal suo posto. Ma come si udì per la stradicciuola tranquilla il passo lento del dottore che se ne venia adagio adagio, un po' stanco delle visite, soffiando pel caldo, e facendosi vento col cappello di paglia, « Pentolaccia » andò a prender la stanga colla quale sua moglie lo scacciava fuori di casa, quando egli era di troppo, e si appostò dietro l'uscio. Per disgrazia Venera non se ne accorse, perché in quel momento era andata in cucina a mettere una bracciata di legna sotto la caldaia che bolliva. Appena don Liborio mise il piede nella stanza, suo compare levò la stanga, e gli lasciò cadere fra capo e collo tal colpo, che l'ammazzò come un bue, senza bisogno di medico, né di speziale.
Così fu che « Pentolaccia » andò a finire in galera.


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Giovanni Verga - Tutte le novelle", a cura di Carla Riccardi, I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1982







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