Giovanni Verga - Opera Omnia >>  Novelle sparse




 

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UN'ALTRA INONDAZIONE


Mi rammento, nell'ultima eruzione dell'Etna, di avere assistito ad uno di quei semplici episodi che vi colpiscono più profondamente della catastrofe stessa. Era lo spettacolo di un casolare in fondo alla valle, che la lava stava per seppellire. Davanti al casolare c'era un cortiletto, cinto da un muricciolo, il quale aveva arrestato per poco la corrente, e le scorie gli si ammonticchiavano addosso adagio adagio; sembrava si gonfiassero, come un rettile immane irritato, e scoppiavano in larghi crepacci infuocati. Allora il casolare ne era improvvisamente rischiarato, e si vedevano le finestre spalancate, una tettoia accanto alla porta, e un albero nel cortiletto. L'immensa valle era tutta nera di scorie fumanti, che si squarciavano qua e là, e avvampavano nelle tenebre, e le scorie irrompevano da quei crepacci, con un acciottolìo prolungato e sinistro, come di un'immensa distesa di tegole che rovinasse.
Una delle finestre del casolare si era illuminata, e dava un aspetto di cosa viva a quella casuccia abbandonata in mezzo a tanta desolazione; ma ciò che colpiva maggiormente era quel cortiletto deserto e sgombro di ogni cosa, senza un cane né una gallina, né un pezzo di legno, quasi spazzato da un vento furioso. Di tanto in tanto si vedeva comparire un uomo, il quale sembrava nero nel riflusso ardente della lava, e piccin piccino per la grande distanza.
Egli si affacciava sotto la tettoia, e guardava. Dal poggio dove eravamo, si scorgevano anche col cannocchiale altri uomini piccini e neri, che formicolavano sul tetto, e ne levavano le tegole, i travicelli, le imposte, tutto ciò che potevasi strappare di dosso alla povera casa, la quale pareva sempre più desolata a misura che la spogliavano nuda prima di abbandonarla. E intanto dal poggio gli spettatori, seccati dalla cenere che li accecava e dalle emanazioni che toglievano il respiro, s'impazientivano del lungo tempo che ci metteva la lava a soverchiare l'altezza del muricciuolo, e calcolavano, coll'orologio in mano, il tempo che ci avrebbe messo a circondare la casuccia. Tutt'a un tratto l'albero accanto alla porta avvampò come una fiaccola, e la lava si rovesciò nel cortile. E nella immensa valle nera non si vide altro che il rosseggiare qua e là delle lave che irrompevano, accompagnate dall'acciottolìo sinistro delle scorie che precipitavano. Alle volte, mentre la corrente infuocata si ammonticchiava a poco a poco per cinquanta metri d'altezza, non si udiva né si vedeva più nulla, tranne il fruscìo soffocato della pioggia di cenere, che stampava come uno sterminato nuvolone nero sul pallido cielo di luna nuova, e le fiamme che si accendevano di tratto in tratto nella valle, e indicavano il corso della corrente di fuoco. Ah! quanti alberi se ne andavano in quelle fiamme! e quanti filari di vigne zappati, potati, accarezzati, guardati cogli occhi assorti dei castelli in aria! e quante cannucce colle immagini di sant'Agata miracolosa, che non erano valse ad arrestare il fuoco! e quante avemarie biascicate colle labbra tremanti! E noi che correvamo ad assistere a quel triste spettacolo in brigate chiassose! e le strade della montagna che erano popolate di notte come alla vigilia di una festa, e i cocchieri che facevano scoppiettare le fruste perché non avevano né vigne né case, e la loro vigna era quella provvidenza dell'eruzione che avrebbe dovuto non finir più, se voleva Dio! e le bettole affollate e fumanti e i campi lungo le siepi, e le storielle dettagliate del disastro che si raccontavano per rendere più piccante lo spettacolo a coloro che spendevano venti lire per andare a vedere! - Quante ricchezze aveva ingoiate il fuoco, quanti campi aveva distrutto, quanto erano distanti i boschi del barone A. e quanto potevano valere i nocciuoleti del marchese E., minacciati dall'eruzione. - Insomma i particolari più desolanti, come il pepe della pietanza, che vi facevano sospirare dal piacere pensando che non ci avevate nemmeno un palmo di terra da quelle parti.
Un tale, il giorno prima, vi possedeva una vigna che gli fruttava tremila lire all'anno, una ricchezza, sebbene non avesse altro, per sé e per la sua numerosa famiglia. Tutt'a un tratto vennero a dirgli che il fuoco divorava la sua ricchezza, e lo lasciava povero e pazzo come si dice. Egli accorse a cavallo dell'asino, e trovò il vignaiuolo affaccendato a levare le imposte del palmento, e le tegole del tetto, le doghe delle botti, tutto ciò che si poteva salvare, come avevano fatto quei del casolare. Il padrone, giungendo alla porta senz'uscio del palmento, dinanzi alla sua vigna che gli fumava e gli crepitava sotto gli occhi, filare per filare, domandò al vignaiuolo con la faccia bianca: - Perché avete levato le tegole e le imposte, e le doghe delle botti? - Per salvarle dal fuoco - rispose il contadino. - il fuoco fra tre ore sarà qui. - Lasciate stare ogni cosa - disse il padrone. - Io non ho più bisogno di palmento, né avrò più cosa metterci nelle botti. Io non ho più nulla.
Egli non aveva nemmeno la zappa da camparsi la vita, come il suo vignaiuolo. Poi baciò il cancello della vigna, che ancora rimaneva in piedi, e se n'andò tirandosi dietro l'asinello.
Io non ho assistito a quella scena, ma essa mi è rimasta stampata dinanzi gli occhi più nettamente del casolare che ho visto distruggere dalle lave. E sentendo di quell'altra catastrofe che ha devastato Reggio ho pensato a quei poveretti che si sono voltati a guardare di lontano la vigna inondata, o la casuccia distrutta ed hanno detto: - Io non ho più cosa metterci nelle botti quest'anno, né nel granaio, io non ho più nulla - come quel tale che aveva baciato per l'ultima volta il cancello della sua vigna, e se n'era andato tirandosi dietro l'asinello.


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Giovanni Verga - Tutte le novelle", a cura di Carla Riccardi, I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1982







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