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MONDO PICCINO


Gesualdo, sin da fanciulletto, non si rammentava altro: suo padre, compare Cosimo, che tirava la fune della chiatta, al Simeto, con Nanni Lasca, Ventura, e l'Orbo; e lui a stendere la mano per riscuotere il pedaggio. Passavano lettighe, passavano vetturali, passava gente a piedi e a cavallo d'ogni paese, e se ne andavano pel mondo, di qua e di là del fiume.
Prima compare Cosimo faceva il lettighiere, di suo mestiere. Una volta, la vigilia di Natale - giorno segnalato - tornando da un viaggio, trovò a Primosole che sua moglie stava per partorire: - Comare Menica stavolta vi fa una bella bambina - gli dicevano tutti all'osteria. E lui contento come una Pasqua s'affrettava ad attaccare i muli alla lettiga per arrivare a casa prima di sera. Il baio, birbante, da un po' lo guardava di malocchio per certe perticate a torto, che se l'era legate al dito. Come lo vide spensierato, mentre si chinava ad affibbiargli il sottopancia, affilò le orecchie a tradimento - jjj! - e gli assestò un calcio che l'azzoppò per sempre.
Sua moglie, poveretta, appena lo seppe, voleva saltare giù dal letto, e correre a Primosole, se non era il dottore don Battista che l'acchiappò per la camicia: - Come le bestie, voialtri villani! Non sapete cosa vuoi dire una febbre puerperale!
- Signor don Battista, come posso lasciare quel poveretto in mano altrui, ora che è in quello stato fuorivia?
- Date retta al medico, diceva comare Stefana. - Vostro marito andrete a trovarlo poi. Credete che vi scappa?
Poscia il baliatico, la malannata, il bisogno dei figliuoli, e il tempo era passato. Compare Cosimo per buscarsi il pane s'era messo con quelli della chiatta, a Primosole, insieme a Gesualdo, e prometteva sempre d'andar al paese per veder la moglie e la bambina, un giorno o l'altro. - Verrò a Pasqua. Verrò a Natale.
Con ogni conoscente che passava mandava sempre a dire la stessa cosa; tanto che comare Menica non ci credeva più, e Gesualdo, ogni volta, guardava il babbo negli occhi, per vedere se diceva davvero.
Ma succedeva che a Pasqua e a Natale si aveva una gran folla da tragittare, sicché quando spirava scirocco e levante, e il fiume era grosso, c'erano più di cinquanta vetture che aspettavano all'osteria di Primosole. Lo zio Cosimo bestemmiava contro il maltempo che gli levava il pan di bocca, e la sua gente si riposava: Nanni Lasca bocconi, dormendo sulle braccia in croce, Ventura all'osteria, e l'Orbo cantava tutto il giorno, ritto sull'uscio della capanna, a veder piovere, guardando il cielo cogli occhi bianchi.
Comare Menica avrebbe voluto andar lei a Primosole, almeno per sentire come stava suo marito, e fargli vedere la bambina, che suo padre non la conosceva neppure, quasi non l'avesse fatta lui. - Andrò appena avrò presi i denari del filato, diceva anch'essa. - Andrò dopo la raccolta delle olive, se m'avanza qualche soldo. - Così passava il tempo anche per lei. Intanto fece una malattia mortale di quelle che don Battista se ne lavava le mani come Pilato. - Vostra moglie è malata malatissima - sentiva dire compare Cosimo dallo zio Cheli, da compare Lanzise, e da tutti quelli che arrivavano dal paese. Stavolta egli voleva correre davvero, a piedi, come poteva. - Prestatemi due lire pel viaggio, compare Ventura. - Compare Ventura rispondeva: - Aspettate prima se vi portano qualche buona notizia, benedett'uomo che siete! Alle volte, intanto che voi siete per via, vostra moglie gli succede di guarire e voi ci perdete il viaggio inutilmente. L'Orbo invece gli suggeriva di far dire una messa alla Madonna di Primosole ch'è miracolosa per le febbri d'aria e gli accidenti. Infine giunse la notizia che a comare Menica gli avevano portato il Viatico. - Vedete se avevo ragione di dirvi d'aspettare? osservò Ventura. - Cosa andavate a fare se non c'era aiuto?
Il peggio era pegli orfani, che la mamma è come la chioccia pei suoi pulcini. Gesualdo stava con suo padre a buscarsi il pane alla chiatta di Primosole. Ma Titta, suo fratello, e Lucia, l'ultima nata, erano rimasti alle spalle degli zii lontani, che gli davano il pane duro e la mala parola. E meglio fu per compare Cosimo che il Signore gli chiuse gli occhi prima che vedesse quel che n'era del sangue suo. A Primosole l'Orbo gli diceva che coll'aiuto di Dio poteva viverci e morire al pari di lui, che vi mangiava pane da quarant'anni, e ne aveva vista passare tanta della gente. Passavano conoscenti, passavano viandanti che non s'erano visti mai, e nessuno sapeva d'onde venissero, a piedi, a cavallo, d'ogni nazione, e se ne andavano pel mondo, di qua e di là del fiume. - Come l'acqua del fiume stesso che se ne andava al mare, ma lì pareva sempre la medesima, fra le due ripe sgretolate; a destra le collinette nude di Valsavoia, a sinistra il tetto rosso di Primosole; e allorché pioveva, alle volte per settimane e settimane, non si vedeva altro che quel tetto triste nella nebbia. Poi tornava il bel tempo, e spuntava del verde qua e là, per le roccie di Valsavoia, sul ciglio delle viottole, nella pianura fin dove arrivava l'occhio. Infine giungeva l'estate e si mangiava ogni cosa, il verde dei seminati, i fiori dei campi, l'acqua del fiume, gli oleandri che intristavano sulle rive, coperti di polvere.
La domenica cambiava. Lo zio Antonio, che teneva l'osteria di Primosole, faceva venire il prete per la messa; mandava la Filomena, sua figliuola, a scopare la chiesetta ed a raccattare i soldi che i devoti vi lasciavano cadere dal finestrino per le anime del Purgatorio. Accorrevano dai dintorni, a piedi, a cavallo, e l'osteria si riempiva di gente. Alle volte arrivava anche il Zanno, che guariva ogni male, o don Liborio, il merciaiuolo, con un grande ombrellone rosso, e schierava la sua mercanzia sugli scalini della chiesuola, forbici, temperini, nastri e refe di ogni colore. Gesualdo si affollava insieme agli altri ragazzi, per vedere, ma suo padre gli diceva: - No, figliuol mio, questa è roba per chi è ricco e ha denari da spendere.
Gli altri invece compravano: bottoni, tabacchiere, pettini d'osso che imitavano la tartaruga, e Filomena frugava dappertutto colle mani sudicie, senza che nessuno gli dicesse niente perché era figliuola dell'oste. Anzi don Liborio un giorno le regalò un bel fazzoletto giallo e rosso che passò di mano in mano. - Sfacciata! dicevano le comari - fa l'occhio a questo e a quello per avere dei regali!
Dopo Gesualdo li vide tutti e due dietro il pollaio che si tenevano abbracciati. Filomena, la quale stava all'erta per timore del babbo, si accorse subito di quegli occhietti che si ficcavano nella siepe, e gli saltò addosso con la ciabatta in mano. - Cosa vieni a fare qui, spione? Se racconti quel che hai visto, guai a te! - Ma don Liborio la calmava con belle maniere. - Lasciatelo stare quel ragazzo, comare Mena, ché gli fate pensare al male senza saperlo.
Però Gesualdo non poteva levarsi dagli occhi il viso rosso di Filomena e le manacce di don Liborio che brancicavano. Allorché lo mandavano pel vino all'osteria, si piantava dinanzi al banco della ragazza, che glielo mesceva con faccia tosta, e lo sgridava:
- Guardate qua, cristiani! Non gli spuntano ancora peli al mento, quel moccioso; e ha negli occhi la malizia!
Passò del tempo. Lo zio Antonio maritava Filomena con Lanzise, uomo dabbene, il quale non sapeva niente. Però ci aveva il fatto suo lì vicino, terre e buoi, e un pezzo di vigna in collina, dicevano. Il matrimonio fece chiasso, tanto che venne anche don Liborio a vender roba pel corredo. La sera mangiava all'osteria di Primosole. Non si sa come, a motivo di un conto sbagliato, attaccarono lite collo zio Antonio; e don Liborio gli disse - becco!
Compare Antonio era un omettino cieco da un occhio che a vederlo non l'avreste pagato un soldo. Però si diceva che aveva più di un omicidio sulla coscienza, e a venti miglia in giro gli portavano rispetto. Al sentirsi dire quella mala parola sul mostaccio, senza dire né uno né due, andò a pigliare lo schioppo accanto al letto. Sua moglie allora, ch'era malata d'anni ed anni, si rizzò a sedere in camicia strillando: - Aiuto, che s'ammazzano! santi cristiani!
E Filomena per dividerli, buttava piatti e bicchieri addosso a don Liborio gridando: - Birbante! ladro! scomunicato!
- Che vi pare azione d'uomo cotesta, compare Antonio? - rispose don Liborio con quella faccia di minchione. - Io non ci ho altro addosso che questo po' di temperino.
- Avete ragione, disse lo zio Antonio, e andò a posare lo schioppo senza aggiunger altro.
Più tardi Gesualdo raccattava un po' di frasche sulla riva, quando vide venirsi incontro don Liborio, con quella faccia gialla di traditore, che si guardava attorno sospettoso, e gli disse: - Te' un baiocco, e va a dire a compare Antonio che l'aspetto dietro la siepe, per quella faccenda che sa lui. Ma che nessuno ti senta, veh!
La sera trovarono compare Antonio lungo disteso dietro una macchia di fichi d'India, col suo cane accanto che gli leccava la ferita. - Come è stato, compare Antonio? Chi v'ha dato la coltellata? - Compare Antonio non volle dirlo. - Portatemi sul letto per ora. Se campo poi ci penso io, se muoio ci pensa Dio. - Questo fu don Liborio che me l'ammazzò! strillava la moglie. E Filomena badava a ripetere: - Birbante! ladro! scomunicato!
- Io lo so chi l'ha ammazzato - diceva Gesualdo agli altri ragazzi. - Ma non posso dirlo.
Venne il giudice cogli sbirri, a fare la generica; ma nessuno aveva visto nulla, e lo zio Antonio non rispondeva altro: - Se vivo ci penso io, se muoio ci pensa Dio. - Così se ne andò in paradiso dopo due giorni, senza dir nulla, e Filomena ci guadagnò che perdette il marito, per quella parolaccia di becco, che a Lanzise gli era giunta all'orecchio.
Anche don Liborio tornò a passare da quelle parti, fresco come una rosa, dopo ch'era scorso del tempo, e dell'acqua n'era passata sotto la chiatta. - Il mio mestiere è di andare pel mondo di qua e di là - diceva agli amici, che da un pezzo non lo vedevano. E sebbene Gesualdo si fosse fatto grande, e avesse già i peli al mento, lo riconobbe subito e gli disse: - Tu sei quello che andavi pel vino all'osteria, che ci siamo visti dell'altre volte. Ti rammenti? - Egli aveva ingrandito il suo negozio, e si tirava dietro un ragazzetto carico delle sue scarabattole, il quale andava vociando nei villaggi e lungo le fattorie: - Forbici! temperini! tela fina e fazzoletti alla moda! - Lo conoscete questo ragazzo? - disse anche don Liborio a compare Cosimo. - È Titta vostro figlio, che v'ho portato per baciarvi la mano. Vedete come si è fatto grande? Ora con me impara il mestiere, e si farà uomo. - Lo zio Cosimo si lasciò baciar la mano, che non gli pareva vero, e tutti della chiatta, anche Gesualdo, fecero festa a Titta, che era come il Figliuol Prodigo.
Poi, dopo ch'ebbero mangiato e bevuto, se n'andarono pei fatti loro, Titta vociando come al solito, nell'infilare le cinghie delle scarabattole. - Forbici! temperini! Tela fina e fazzoletti alla moda! - E prima d'accomiatarsi, don Liborio conchiuse parlando collo zio Cosimo: - Vedete? Ora dovreste cercare di collocare all'osteria anche l'altra figliuola vostra, Lucia, che non ha nessuno al mondo, e comincia a farsi grande e bella. Se no va a finir male.
Ma prima d'arrivare a collocare la ragazza all'osteria venne un'annata asciutta, che la gente moriva come le mosche, e compare Cosimo prese le febbri anche lui. Siccome era vecchio e pieno di guai, andava predicando: - Questa è l'ultima mia annata.
Non sentiva più i dolori della sciatica; non abbaiava più la notte, e stava quieto nel suo lettuccio, al buio. Soltanto appena udiva chiamar la barca, di qua e di là del fiume, rizzava il capo come poteva, per amor del guadagno, e gridava: - O gente!
Però non potevano lasciarlo morire come un cane, senza medico. Ventura, l'Orbo, e alle volte anche Nanni Lasca, ne parlavano fra di loro, accanto all'uscio, vedendo lo zio Cosimo lungo disteso come un morto, colla faccia color di terra, e si grattavano il capo. Infine risolvettero di chiamargli la Gagliana, una vecchietta che faceva miracoli a venti miglia in giro. - Vedrete che la Gagliana vi guarirà in un batter d'occhio - dicevano al moribondo: - È meglio di un dottore, quel diavolo di donna! - Lo zio Cosimo non rispondeva né sì né no; e pensava alla sua Menica, che se n'era andata al modo istesso, e ai suoi figliuoli ch'erano sparsi pel mondo, come i pulcini della quaglia. Poi, nel forte della febbre, tornava a piagnuccolare:
- Chiamatemi pure la Gagliana. Non mi lasciate morire senza aiuto, signori miei!
La Gagliana la battezzò febbre pericolosa, di quelle che è meglio mandare pel prete addirittura. Giusto era domenica, e si udiva vociare all'osteria. Tutto ciò a Gesualdo, grande e grosso come un fanciullone di vent'anni, gli rimase fitto in mente: i curiosi che venivano a vedere sulla porta, la Gagliana la quale brontolando cercava nelle tasche il rimedio che ci voleva, e il moribondo che guardava tutti uno ad uno, cogli occhi attoniti. L'Orbo, a canzonare la Gagliana che non sapeva trovare il rimedio fatto apposta, le domandava:
- Cosa ci vuole per farmi tornare la vista, comare Gagliana?
Lo zio Cosimo morì la notte istessa. Peccato! Perché il lunedì si trovò a passare lo Zanno, il quale ci aveva il tocca e sana per ogni male nelle sue scarabattole. Lo menarono appunto a vedere il morto. Ei gli toccò il ventre, il polso, la lingua, e conchiuse:
- Se c'ero io lo zio Cosimo non moriva. Gesualdo quand'ebbe finito di piangere si trovò orfano e senza impiego. Quelli della chiatta volevano fargli la camorra perché era un fanciullone. Per fortuna c'era la Filomena che cominciava a farsi vecchia, e nessuno la voleva per quella storia di don Liborio. Ora che Gesualdo aveva messo i peli al mento, ella gli faceva gli occhi dolci come agli altri, e gli diceva ogni volta:
- Io, alla morte di mia madre, da qui a cent'anni, ci avrò la mia roba, grazie a Dio! E il marito che volessi prendere starebbe come un principe. - L'Orbo che faceva il mezzano, per un bicchiere di vino, confermava: - La roba l'ho vista io, con questi occhi! - Ma la mamma, se la va dello stesso passo, campa cent'anni davvero! - Osservava Gesualdo, che il suo giudizio, alla grossa, l'aveva anche lui. Infine si lasciò persuadere: - Per me, se voi siete contenta, io sono contento pure.
E come fu maritato, sebbene la suocera non morisse mai, stette davvero da principe, tanto che non parlò mai più di muoversi di là dov'era sempre stato, sin da ragazzetto. A destra i sassi delle collinette di Valsavoia, a sinistra il fiume giallo colla chiatta, e la capanna dei barcaiuoli sola nella nebbia triste della sera. Questo solo era mutato. Anche l'Orbo se n'era andato sotterra, nel pezzetto di trifoglio dietro la chiesa, dov'erano seppelliti compare Cosimo e lo zio Antonio, e dove sarebbe andata la suocera, da lì a cent'anni, quando il Signore la chiamava. Intanto nel trifoglio giuocavano i figliuoli che la Filomena gli aveva fatti, ed egli andava a mietere l'erba per le sue bestie. Un bel giorno, su di un carro, arrivò una ragazzetta con un fardello sotto il braccio, e si fermò all'osteria dicendogli: - Sapete, son vostra sorella Lucia. - Filomena le fece festa, e acconsentì anche a pigliarsela in casa pei servizi grossi. Ma due cognate stanno male insieme, specie quando una ha le mani lunghe, e un altro bel giorno Lucia se ne fuggì in compagnia di un altro ragazzetto che stava lì alla chiatta di Primosole, per scansare certe busse di Filomena che altrimenti non gliele avrebbe levate il Papa. E nemmeno se ne seppe più nulla. La gente diceva che la zia Filomena aveva messo la gonnella al marito, e infatti egli lasciava fare per amor della pace e dei figliuoli. Di altre chiacchiere colla moglie non ce ne furono se non che il giorno in cui don Liborio si trovò a passare da Primosole colle sue scarabattole, e Gesualdo voleva farlo entrare per non perdere la pratica.
- Tua moglie ha ragione, osservò don Liborio più prudente. Quel ch'è stato è stato, e cogli anni anche a lei è venuto il giudizio.
Poi mentre aspettava la chiatta per passare il fiume gli diede conto di suo fratello Titta, che l'aveva lasciato all'ospedale, per una rissa fatta alla fiera di Lentini, dove s'era buscata una coltellata, e di Lucia che faceva la mala vita.
- Sai, quando ci si casca una volta, è difficile tornare a galla, fra le donne oneste. È stata anche in prigione, perché dice che aveva fatto morire la sua creatura. Il birbante fu quello che l'abbandonò col bambino sulle spalle. Ma tutti nei suoi panni avrebbero fatto come lui.
Egli parlava ancora che la chiatta scompariva nella nebbia, e non si vedeva più. Gesualdo rimase sulla riva colla nebbia nel cuore anche lui; ma dopo, colla minestra calda, e il vino buono, la Filomena riescì a fargli scacciare la malinconia. È vero che il sangue non è acqua, ma il sangue di compare Cosimo, dacché era rimasto invalido a Primosole, era destinato a sperdersi di qua e di là pel mondo come la gente che passava sulla chiatta. Filomena, per confortare suo marito, ora che cogli anni era venuto il giudizio, gli diceva che i poveretti non si riuniscono altrove che al camposanto, dove sarebbero andati a dormire in pace l'uno dopo l'altro, prima la sua mamma, da lì a cent'anni, dopo loro, e dopo di loro i loro figli, che intanto vi andavano a trastullarsi come egli andava a mietervi l'erba per le sue bestie.


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Giovanni Verga - Tutte le novelle", a cura di Carla Riccardi, I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1982







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